Come, Vega Tescari

Non è un libro di racconti, non è un libro di poesie. Almeno non lo è in senso stretto.

Come potrebbe esserlo, Come, se l’autrice Vega Tescari si muove tra lingua, filosofia, arte e architettura – oltre che traduzione poetica – e se la casa editrice, la napoletana Cronopio, è un unicum non solo italiano avendo collane di nuove narrative dal mondo di pari passo con saggi e testi di filosofia contemporanea a comporre tutte primus inter pares lo stesso catalogo?

Innamorata del racconto – in questa foggia, è a-temporale e a-spaziale – delle due categorie principali della filosofia (tempo e spazio, appunto), Tescari mette insieme una raccolta che si compone di due parti (Voci, Echi) per un totale di 42 scritti, a volte – anzi soprattutto – brevissimi o brevi. Nessuno nomina alcun protagonista fatta eccezione per pronomi personali raramente non sottintesi dal verbo; nessuna città o luogo viene annotato; nessun viaggio da qui a lì contestualizzato in una forma consueta. Come è puro concetto di ‘cosa che accade’, scevro da ogni indizio di realtà orchestrante.

L’unica dimensione che potrebbe non sottrarsi al ruolo di protagonista (involontario) è quella della radura o del bosco – non solo elementi figurati della selva di parole ridotte all’osso (cosa che riguarda anche i titoli, una o due parole). 

Pare che Tescari – a differenza di ogni altro scrittore – annienti ogni fonte biografica avendo cura di triturare in fitte listarelle di carta tutti i dettagli che conducano alla sua persona e a un qualsivoglia personaggio narrativo. Ella pare voglia raccontare di sé intima solo questo elemento cognitivo ed esperienziale di uno spazio verde nella città od al suo limitare; vivere al limitare del verde, del naturale dove ogni elemento razionale tende a sopirsi e a mettersi accanto alla meraviglia dell’attraversamento delle cose che accadono. Che sembra il ruolo a cui lei destina il mezzo letterario: forma prima per condividere le pieghe dello stare al mondo – isolato in attimi senzienti – attraverso il linguaggio usato in una originalissima e mai tediante forma rapsodica pura.

Come è un libro che, più di ogni altro, vi consigliamo di destinare ad una specifica panchina di un parco che amate o a un sasso nel bosco che frequentate senza sforzo. E lì che tornerete come in pellegrinaggio a leggere – centellinandoli sennò finiranno troppo presto – gli stimoli visivi potentissimi che ogni racconto (o meglio poesia in prosa) schiude. 

Come è anche un libro che suggeriamo a vostri amici stranieri amanti dell’italiano (oltre ai testi più classici di Calvino e Pavese) per fare un salto nelle mani di un’autrice che fa della sua prima missione il cesello della lingua.

Viaggiate con esso ogni giorno fino a quello spazio identificato tra mille per questa lettura e non perderete un istante di ‘radioso’ corpo a corpo con storie rarefatte fino a dove il gesto, non mediato, incontra la spiritualità e la propria umanità – minuscola nell’ingranaggio del fuori che viene senza un prima ed un poi quasi in un assoluto scorrere senza lunedì, domenica, pomeriggio o albe, estate o inverno. 

Mai fuori fase, Tescari identifica una misura del racconto fatta di annullamento non solo del soggetto biografico ma dello stesso soggetto letterario a cui siamo sempre stati abituati a pensare come il principio che poi si racconta e si fonde non solo con l’azione ma con una presenza, un qui ed ora in luoghi della mente. 

Intanto il cielo, fuori, si era fatto più vicino, pareva voler entrare, ma di posto non ce n’era e doveva starsene a spiare il dentro dai finestrini della stanza. Soffocare di aperto era la sensazione che dava tutto quel blu gettato in ordine sparso in alto e raccolto da qualcosa che non l’aveva più lasciato cadere. Si respirava bene, dentro; non si volevano aperture, non si cercava di raggiungere con lo sguardo qualcosa al di là di quelle quattro mura. Si cercava piuttosto, con sempre maggior forza, di dare una forma e una struttura a quelle cose che si avevano a disposizione, che si toccavano con mano e contro cui ci si poteva appoggiare, con tutto il peso, anche stando di schiena, senza vedere. Non si cercava di immaginare altro, non si pensava neanche potesse esserci altro. Servire le cose che si trovavano lì, trovare loro un posto che fosse di questo mondo; dove potessero cadere con tutta la loro pesantezza e ruvidità, facendo anche rumore, se necessario.

(Dentro, pagina 73, da: Come, Vega Tescari, Edizioni Cronopio, ISBN 978-88-983367-34-4)

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