Istanbul Istanbul

 

Fin dall’infanzia, Istanbul è stata anche la mia isola segreta. Quella notte d’inverno in cui mio padre ci raccontò la storia dell’anziano cartografo, tirai fuori dal mio zaino la cartina, vi disegnai sopra un’isola, la immaginai con gioia e mi legai a lei con amore. Era un periodo in cui mi sembrava che le persone scegliessero di vedere al posto di capire. Ovunque, il mondo stava cambiando. Le persone si erano dimenticare come si fa ad amare senza vedere. Non avevano un’isola da sognare e non sapevano cosa stavano cercando. Non riuscivano a capire come avessi potuto amare questa città da lontano per tanti anni, avendo cancellato dalla loro memoria l’idea di conquista. Ogni conquista si aggrappa a un sogno e segue il proprio cammino. La strada di Gesti era diversa da quella di Alessandro Magno. Alessandro voleva conquistare la città, Gesti i suoi abitanti. Il mio sogno era conquistare sia la citta sia i suoi abitanti e, insieme, salvarli entrambi. Istanbul ne aveva bisogno.

Tutti raccontavano la bellezza di Istanbul, nessuno riusciva a viverci felicemente. L’incertezza, l’egoismo e la violenza oscuravano la sua bellezza. La città era l’espressione della bellezza e dell’integrità che l’essere umano cercava nel mondo. Da tempo Dio non bastava più per questo. Gli esseri umani lottavano per creare una natura nella città e volevano viverci dentro. Dio non aveva forse fatto lo stesso! Non aveva creato il cielo, la terra e l’uomo per comprendere il suo stesso significato? Erano passati secoli. Le cose erano cambiate. Il caos aveva cominciato a buttare fuori Dio. Se per buttare fuori Dio c’era bisogno di tirare dentro qualcosa, gli esseri umani stavano costruendo questo qualcosa nella città. Gli uomini, dispiegando la loro vera natura, stavano costruendo inconsapevolmente una nuova era. Cosi era nata anche la malinconia. Non era la malinconia delle persone, ma di Dio che non riusciva ad adattarsi ai nuovi tempi. La cosa che aveva temuto di più dall’epoca della Torre di Babele, si stava realizzando.

I membri di una tribù al di la del mare avevano deturpato e sfigurato i volti dei loro bambini per non farli prendere dal nemico che li avrebbe ridotti in schiavitù. In questo modo, i bambini erano rimasti liberi. Nella loro lingua, bruttezza e libertà avevano lo stesso significato, bellezza e schiavitù si esprimevano con la stessa parola. Anche gli abitanti di Istanbul vivevano con la paura di perdere la loro città e facevano di tutto per distruggerne la bellezza. Sopra e sottoterra affondavano nel dolore, si attaccavano al male. Chiamavano libertà il deturpamento della città. Non riuscivano a vedere che il fine ultimo del male era distruggere la bellezza. Ma Istanbul riusciva a sentirlo. Opponeva resistenza alla stupidità umana. La grande città resisteva da sola, tentando di difendere la propria bellezza.

 

Burhan Sönmez (Turchia, 1965)

 

Per saperne di più dell’autore: www.burhansonmez.com, oppure leggi la nostra intervista qui: http://www.slow-words.com/it/burhan-sonmez-ankara/

 

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