Il paese di San Graziano è appoggiato sul versante più soleggiato della conca appenninica da cui prende il nome. A nord, tra le vette del Forcella e il Sasso dello Strombio, corre un lungo crinale dal profilo leggermente insellato, ripido e pietroso, che ricorda lo scheletro di un mulo schiantato dalla fatica. Ad est e a ovest le colline digradano dolcemente abbracciando il paese, mentre a sud le ultime cime montuose chiudono la vista di quel mare poco distante che si respira nelle calde sferzate di scirocco.
Il borgo è un cuore che scandisce la sua vita nei due tempi di un palpito giornaliero: la fuga mattiniera verso la città di chi deve serpeggiare i quaranta tornanti e i dodici chilometri di pianura fino al posto di lavoro, e il rientro serale alla quiete casalinga. Chi rimane a spendere il suo quotidiano tra i selciati del borgo è chi ha già pagato il dazio della gioventù in favore della vecchiaia, chi ha appena cominciato a pagare, e quei pochi che hanno interesse a non muoversi. Tra questi ci sono gli equipaggi misti a scartamento ridotto della stazione dei carabinieri, della posta, del negozio di ferramenta, del circolo acli e della concorrenza del caffè Garibaldi, della farmacia, della stazione di rifornimento, dei due negozi di alimentari , dell’edicola-casalinghi-tabaccheria e dei pastori del consorzio.
I due bar sono i principali centri di aggregazione. Il caffè Garibaldi, dal taglio più progressista, può contare sulla tivù satellitare, le slot e sulle grazie scollate della Veronica, mentre l’altro, aggregato alla parrocchia, sul biliardo, i tavoli per le carte, la bocciofila e il campo da calcio a undici.
Antonio Ridolfi, quadrunviro della direzione sportiva, dava l’anima per quel campo, per quel pezzo di terra che prima delle sue cure poteva servire a far grufolare i cinghiali o al massimo per piantare patate. Dapprima aveva livellato le pendenze del prato, tamponato la frana sul lato meridionale con una massicciata, poi lo aveva reso leggermente convesso per drenare meglio l’acqua. Successivamente aveva progettato e diretto i lavori della tribuna e della recinzione, ed ora che le forze scemavano all’avanzare silenzioso e inarrestabile della senilità, poteva finalmente dedicarsi alla sua occupazione preferita, ovvero trascorrere le domeniche mattina tracciando le linee con il gesso per farne a tutti gli effetti un terreno di gioco regolamentare.
A gli occhi della moglie, che nei quarant’anni di convivenza aveva imparato a tradurne le astrusità con la concretezza spicciola dello spirito casalingo, il fine ultimo del lavoro di costruzione non era stato quello di realizzare una struttura ricreativa destinata a terzi, bensì quello di crearsi un’occupazione più consona alle ragioni dell’età. Ad avvalorare tale ipotesi contribuiva l’osservazione della metamorfosi operata dal lavoro di geometra, che lentamente gli aveva deterso l’unguento dell’elasticità dagli ingranaggi del pensiero. Concretamente, tutto ciò che differiva dal suo punto di vista, dalla logica geometrica dei suoi ragionamenti, risultava necessariamente sbagliato, tanto da indurlo a sostenere conflitti immotivati sia in famiglia che all’interno della cerchia dei vecchi amici, anche riguardo a temi per i quali non vantava alcuna competenza. Per tale motivo il Ferrini era un inetto, che in una vita da giardiniere non aveva imparato a potare gli ontani in modo da bloccare la fuga dei palloni diretti verso la scarpata, cosa che si ripeteva ogni qual volta un terzino in cerca di gloria sparasse una cannonata in direzione delle pleiadi. Il Barazza era un coglione, un vecchio coglione orbo e avvizzito incapace di disporre tre lampade al neon in linea retta all’interno degli spogliatoi, e del Giaguaro, il custode, neanche a parlarne. Da un ex impiegato comunale non ci si poteva aspettare una gran voglia di lavorare, soprattutto da uno che era venuto in pensione allo scoccare dell’età minima, motivo per cui veniva sfottuto dall’intera compagnia, compreso don Gino, che nella sua vita si era dato da fare solo a tavola, e pare, secondo voci tanto maligne quanto attendibili, per consolare la giovane moglie di un pendolare. Le voci raccontavano addirittura che fosse stato lo stesso don Gino a trovare il lavoro al marito e che , apposta, glielo avesse cercato a centoventi chilometri da casa.
A conti fatti, il Ferrini sbagliava nel potare le piante perché crescessero rigogliose invece di diventare dei pennacchi, il Barazza a piazzare le lampade in modo che illuminassero meglio gli spogliatoi, il Giaguaro ad aprire e chiudere il campo secondo gli orari stabiliti dal prete, ed il prete a trovare lavoro ad un disoccupato. Ma mentre il Ridolfi reiterava i suoi discorsi sconclusionati nelle sedi meno opportune, il parroco era rapito dalle preoccupazioni per la salute del campanile, che da troppo tempo supplicava un restauro.
Per effetto delle ultime gelate, la crepa della parete nord aveva cominciato ad allungarsi pericolosamente verso l’alto in direzione della bifora sottostante al loggiato campanario, ed il guaio era che per un restauro anche solo parziale, che fosse comunque più decoroso di una semplice messa in sicurezza, occorrevano più soldi di quanti ne disponesse la parrocchia.
A questo punto, lungo il cammino di don Gino si aprivano due strade da valutare bilanciando costi e benefici: una salita umiliante alla questua in sede curiale, oppure una lunga passeggiata pianeggiante e tortuosa attorno all’organizzazione di eventi finalizzati all’autofinanziamento. Certamente la prima prospettava maggiori garanzie di successo, ma in questo caso sarebbe incappato nella reiterata filippica sul mancato utilizzo della Madonna del Grigione, quell’affresco incrostato e di fattezza discutibile, in cui pareva che alcuni intravedessero una corona di spine stagliata tra le macchie di muffa del cielo scolorito.
A detta di Sua Eminenza, che era solito spalmare la dolcezza del tono sull’acume delle parole come una pennellata di miele sulla lama della ghigliottina, con un po’ di buona volontà la cappella avrebbe potuto trasformarsi in una meta di pellegrinaggio, e con ciò la parrocchia sarebbe passata da un buco per le casse diocesane ad una fonte di reddito non trascurabile. Si trattava solo di dare visibilità ad un fenomeno piuttosto singolare, come del resto era già successo in altri tempi e luoghi grazie all’intraprendenza di preti più propositivi. Successivamente, dopo una lunga, attenta e dettagliata valutazione, anche loro si sarebbero esposti con toni misurati per vidimare o negare l’autenticità dell’evento.
Ciò che però sfuggiva al vescovo, riguardo alla renitenza di don Gino nel trasformare il presunto miracolo in un miracolo economico, non andava ricercato esclusivamente nella sfera delle questioni etiche, ma nel timore di essere affiancato da una vecchia conoscenza, quel fisico teorico affetto da incontinenza verbale di don Marzio , il quale gli aveva confessato, tra un vermut e uno stock, che alla commissione scientifica vaticana stavano elaborando nuovi modelli per adeguare Dio alle più recenti scoperte del CERN di Ginevra. Quello che invece sfuggiva a don Gino, pur comprendendo il bisogno della Chiesa di valutare delle ipotetiche manifestazioni divine attraverso la visione distaccata di uno scettico, era l’altro capo dell’equazione, e cioè perché don Marzio difendesse le proprie posizioni con tanta veemenza pur mantenendo l’abito talare, se non ammettendo che anche lui, nel profondo, sotto la maschera agnostica calata sopra quella religiosa, covasse più incognite che soluzioni.
Sorvolando sulle questioni personali, le incombenze rimanevano indirizzate alle cure improrogabili per la torre campanaria, e tralasciata la via gerarchica, l’unica opportunità per colmare il divario economico tra il deposito parrocchiale ed il restauro, rimaneva la sagra del patrono con la pesca di beneficenza.
Gli anziani del circolo si prodigarono secondo le proprie disponibilità. Le donne non persero tempo ad imbracciare i ferri da maglia o l’uncinetto per confezionare maglioni e centrini, mentre i quadrumviri indugiarono sulla competizione iniziata da bambini quando si scappellavano per pisciare più lontano, e successivamente quando la sfida si era trasferita sul piano della raccolta funghi, delle coltivazioni ortensi e sulle più accese rivalità di caccia che erano sfociate in litigi memorabili e solenni riappacificazioni.
Il Giaguaro, con sommo dispiacere, mise a disposizione la macchina del caffè dell’ufficio regalata dagli ex colleghi per il pensionamento, quella che lo aveva sostenuto durante le ore in municipio in cui il tempo scorreva con un incedere talmente colloso da frenare la corsa delle lancette. Un oggetto perfetto nella sua semplicità, che poteva considerare, a paragone degli umani di sua pertinenza, più dolce della moglie, meno esoso delle figlie, più discreto dei nipoti, più onesto del Ferrini, più elegante del Barazza, più malleabile del Ridolfi.
Il Ferrini decise di regalare una selezione delle sue rose migliori, quelle che nel corso degli ultimi vent’anni, nella lunga solitudine degli inverni in collina, aveva trapiantato dai giardini dei villeggianti. Ultimamente aveva smesso, non tanto per nobili motivi di redenzione, quanto perché, accumulati chili ed acciacchi, faceva sempre più fatica a scavalcare i recinti senza rischiare di lasciarci appese le palle. Comunque sia, avrebbe potato le piante, le avrebbe messe in vaso e presentate nella migliore delle condizioni possibili. Sapeva che a differenza degli altri, vincolati dal limite mentale di una selezione di oggetti, avrebbe portato la vita in uno dei suoi aspetti più nobili: la bellezza.
Ciò che Barazza aveva di più caro era l’insulina che teneva in frigorifero, che certo era fondamentale per tenerlo in vita, ma di sicuro non era cosa adatta ad una pesca di beneficenza. Dopo un’attenta riflessione si accorse di non avere niente da donare, ma soprattutto di non possedere nulla. L’appartamento in cui viveva, e quello in città, comprati con i sacrifici di una vita di risparmi, erano destinati al figlio. Tutto il resto era condiviso con la moglie, e quindi intoccabile. Le uniche cose che poteva considerare sue a tutti gli effetti, ad eccezione dei vestiti, comunque degni dei bidoni della Caritas, erano l’attrezzatura da pesca alla mosca e la cassetta degli attrezzi da elettricista. Dato che era in pensione, decise di donare la seconda con l’intenzione di comprare una ventina di biglietti nella speranza di rivincerla.
Ridolfi era un accumulatore. Il suo garage era diventato un santuario dell’obsoleto e dell’inutile, dove ogni cosa aveva la medesima inestimabile importanza, ed era stipata e catalogata secondo una logica su base dimensionale. Piuttosto che donare qualcosa avrebbe dato il sangue, come in effetti aveva fatto due volte l’anno fino ai sessanta, ma per nessun motivo si sarebbe privato di una gemma del suo tesoro.
* * *
Alla vigilia del patrono tutto era pronto, o quasi. Le tettoie, i tavoli, le panche, la cucina, la legna per le grigliate, il generatore per l’illuminazione, e tutto il resto dei dettagli tecnici era approntato. I fornitori avevano rifornito, la banda aveva scelto i brani, la pista da ballo era stata lucidata e gli ambulanti sarebbero arrivati il mattino seguente al chiarore dell’alba.
Distante dall’eccitazione generale, don Gino si aggirava per il paese con lo sguardo terreo. Non era mai stato un buon contabile, ma anche secondo le previsioni più rosee non era certo di racimolare quanto necessario. L’unica speranza era riposta in un afflusso inatteso di cittadini a caccia di tradizioni, di quelle persone capaci di sorseggiare coca-cola con il cinghiale in umido o di scambiare per genuino un cancherone artigianale annegato nei solfiti.
Quando entrò nel circolo, il duo Ferrini-Barazza sfidava la coppia Giaguaro-Ridolfi all’ultima mano del torneo di briscola. La tensione era palpabile. Entrambe le squadre avevano accumulato otto partite vinte e quaranta punti dal mazzo ed in ballo c’era una bottiglia di amaro delle antiche distillerie Lencioni, tuttavia erano altri i pensieri che oscuravano gli umori, altro il motivo che faceva contrarre i segni dei bari: gli oggetti che avevano deciso di donare, per l’assurdo e unico fine di primeggiare nella nuova puntata dell’antica contesa, rappresentavano qualcosa di più di un legame col passato, erano la malta stessa di una vita di ricordi che pian piano si andava sfaldando nella memoria miope della vecchiaia.
Don Gino si avvicinò trascinando una sedia dal tavolo a fianco, la ruotò facendo perno su una gamba dopodiché si sedette incrociando le braccia sullo schienale. Avrebbe voluto trasformare quel tavolo in un confessionale, invertire i ruoli e liberarsi dal peso delle preoccupazioni, spiegare il significato della riparazione della crepa che sentiva come una piaga aperta sulle sue spalle, viva, beante, dolorosa, che minando la sopravvivenza del campanile minacciava l’intera comunità e le sue tradizioni secolari. Avrebbe voluto far capire che non si trattava di una semplice torre edificata nel vertice geografico del paese, ma di un simbolo che rappresentava l’asta della meridiana del tempo di Dio e allo stesso tempo un faro proiettato contro il buio immobile dello spazio freddo e infinito. Ma di fronte al ribollire di tante elucubrazioni, le uniche parole che riuscì a distillare furono:
– Siete pronti per domani? –
Tutti si guardarono ma nessuno rispose. Chi alla legna, alla griglia, al fornello o alla mescita, avrebbero ricoperto il proprio ruolo allo stesso modo degli anni precedenti, e come ogni volta il vento avrebbe trasportato il profumo delle frittelle, dei formaggi delle bancarelle, dei filetti di baccalà, della carne alla brace, e con questi i virtuosismi folk della fisarmonica, i pianti dei neonati, le urla giocose dei bambini e le risate degli adulti ingrassate dal vino. Era stata una domanda inutile, al pari di chiedere alla cronaca se si sentisse pronta per l’esame con la storia, e formulata nel momento in cui i pensieri erano rivolti alle carte dell’ultima mano, gli occhi alle smorfie del compagno o degli avversari, il cuore incarcerato nelle regole ottuse dell’antico patto d’onore.
Ferrini calò il quattro di bastoni guardando il Giaguaro – voglio vedere cosa ci fate con questo? –
Il Giaguaro fece scivolare il tre di coppe – con i tuoi niente, ma con questi ci beviamo l’amaro. –
Il Barazza capì che le speranze di vittoria erano tramontate – strozzati! – urlò, lanciando il due di spade, mentre Ridolfi, lasciato cadere l’asso di denari dalle dita, disse “ Ragazzi, ma se ci mettessimo cinquanta euro a testa?”.
Michele Perfetti
L’immagine di copertina, Make Silence, è un artwork di Stefania Bonatelli (Italia)