senza titolo

Fino a te non avevo mai capito. Fino a te non avevo mai sentito il mio corpo capace di diventare di ghiaccio. In un momento tutte le ossa, la pelle e l’interno più recondito diventano freddi, improvvisamente. Freddissimi, fino a rabbrividire, fino a non trovare altro che freddo, secernere ghiaccio che non può essere medicato o sciolto, stemperato.

Qui sta arrivando il vento del nord, mi sa che la piccola meravigliosa estate che abbiamo avuto in questi giorni sta per sparire.

Quando arriva il vento del nord mi manchi ancora di più, mi manca il collo e la barba dove rifugiarmi, le mani grandi in cui perdermi ed il colore tenue e deciso che la tua pelle assume al freddo. E’ quel rosa calcato con cui il tuo viso si ricopre quando esci con le mani in tasca ed il bavero del tuo giubbino a quadri alzato. Pensa che potrei persino descrivere il tuo odore, me lo ricordo anche a memoria, quando hai freddo poi cambia un po’: diventa più speziato. Me lo ricordo – ad anni di distanza.

Allora varco le stanze di specchi dove rifugiarmi mentre guardo me moltiplicata decine di volte, stretta da altri uomini. Le cerco, le trovo, ci resto con piacere. Quando il sole del mattino irrompe e la realtà, fragorosa con tutti i suoi risvolti materiali e materici, si rivela a me e al tempo trascorso facendomi amare da altri, allora arretro. E faccio ritorno alla gabbia in cui non entra nessuno, neanche tu potresti (ammesso che riuscissi a trovare la chiave).

Fino a te, non avevo mai abitato per una notte una stanza tutta rivestita di specchi.

Avevo appreso così poco di sentimenti. E anche di concetti semplici, come la durata, fino a te.

E avevo così poco imparato a guardarmi e poi a guardarci, sempre affastellata negli attimi. Non me ne sono mai pentita, fino a te.

Ieri ho ordinato uno specchio barocco, due metri per uno. Voglio il doppio di uno, la sezione di due insieme. Libera di posizionarlo in verticale e in orizzontale a piacimento. Forse così inquadro la durata da tutte le possibili visuali.

L’esercizio di grammatica spirituale di oggi è facile, così facile. Ripensare l’ultimo anno (solo l’ultimo) isolato dal rumore di fondo di tutti gli altri. Analizzo i bisogni e come ho risposto a quelli urgenti e quelli secondari. Guardo alle speranze che ho avuto giusto un anno fa ed elenco quelle di stamane. Mi sono ritrovata a 17 anni a scegliere le canzoni per la mia festa di compleanno: avrei ancora incluso le stesse, oggi. Conservo le stesse speranze, con più disincanto.

Ho imparato che l’amore arriva veloce e che non dura per sempre, nella stessa forma e nella stessa teoria di passioni. Dovrebbero insegnarlo nelle scuole più elementari, per infrangere subito i sogni precotti tappezzati di rosa. Tu me l’hai insegnato la prima volta che ci siamo visti, attorno a un tavolo di artisti. Non ho voluto capirlo subito, ma alla fine sei stato capace di insegnarmelo e sei stato così bravo a non infrangere neanche una delle mie speranze. Speranze di me nel mondo, di me da sola, di me che produco o che mi assento.

I glicini lasciano il posto ai gelsomini: al nord sono le uniche tempeste olfattive che ti scuotono fino al profondo. Questo aprile i glicini sono sbocciati più rigogliosi del solito grazie all’inverno mite e ad ogni piccola pioggia spandono ancora di più il loro miele persistente e ambrato. Una pianta magica, avviluppa, sconvolge nel profondo. E’ la traduzione migliore che la natura ha dato per descrivere il senso più profondo dell’intimità.

Piango ad ogni glicine che attraverso questa primavera, quasi sempre senza riuscire a smettere, non importa quante persone e quali mi circondino. Scappo da terrazze fiorite nel bel mezzo di cocktail inciampando su bicchieri ben disposti, tartine e piatti; attraverso a razzo cascate di altri fiori meravigliosi per passare inosservata. In bici cambio strada perché so in quale giardino accanto alla mia direzione ne troverò uno.

A Venezia sono circondata, letteralmente, e mi arrendo. Non posso evitarli, mi accompagnano fino a casa, qualunque direzione prenda per arrivarci. Anche stanotte sono andata a cercare la nostra gatta, che ha deciso che un pezzo del giardino pubblico (dove ti aspettava sempre, sperando che tornassi con il vaporetto) è la sua nuova casa. Sono passata sotto il glicine grande, sotto spesso ci fermavamo a guardare il tramonto quando ancora parlavamo e tu sembravi una persona dolce e gentile. Prima di uscire ho cancellato tutte le newsletter che mi ricordano di te: quella della libreria della tua città, quella del club parigino, quella del negozio degli ultimi regali che ti avevo fatto, compresa la camicia blu profondo, con il collo vietnamita ed anche quello di ricambio in stile occidentale.

Un mio amico mi ha consigliato di bruciare qualcosa di tuo ogni giorno, di assegnarmelo come compito. E di mandargli un messaggio: una sola parola, “fatto”, al termine del rito quotidiano.

Vorrei scriverti un’altra lettera, per dirti di rimuovermi dalle tue di newsletter. Non riesco a farlo.

Perché vorrei iniziarla così: “Posso essere per te, per favore un’altra persona? Una delle centinaia che ti passa davanti per caso, è bella abbastanza per cui tu possa sedurla ed, in serie, abbandonarla. Non voglio invece essere io, Die, quella che hai finto di amare per due anni e mezzo e poi all’improvviso, dopo averle insegnato il coraggio della maternità, sei sparito. Estirpati da me, per favore, perché io non riesco a cancellarti.”

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