Valentino, cuoco – Licata

Una terrazza veneziana di un grande albergo, un party ambito: quello di una rivista americana – definita la bibbia del cinema – in onore del direttore della Giuria della mostra del cinema di Venezia, il regista Sam Mendes.

E’ l’ultimo posto dove pensereste di trovare storie e sogni veri oltre a quelli di celluloide. Nonostante tutto, noi una l’abbiamo trovata – fuori dal mainstream e dall’industry, dalle starlette e dal glitter. E ve la raccontiamo.

 

E’ un giovane cuoco del Gritti, che insieme ad altri suoi colleghi ha cucinato a tema per gli invitati: a lui toccava inventarsi qualcosa per raccontare Era Mio Padre, uno dei film del regista britannico. Ha scelto di fare la panella con il baccalà mantecato, e poi la granita perché ‘c’era la possibilità di fare anche la brioche’.

 

Non ho mai assaggiato nulla di simile, e come me, centinaia di persone estasiate continuavano a fare la fila alla sua postazione per averne ancora, di granita.

 

Il sapore – e l’esperienza complessiva della sua texture – ti portava su una barca, eri pronto e contento a salpare. Per qualunque luogo.

 

Il limone il sale e lo zucchero si intrecciavano in una unica nota, diversa da qualsiasi altra (complici la menta ed altri ingredienti segreti). Eri su una duna o nel calore abbacinante di un mare vero al meriggio e, insieme, al riparo sotto un patio siciliano a pochi passi dallo Stromboli, a goderti il fresco della sera.

 

Il ghiaccio era crema soffice ed insieme compattissima, nulla di simile a quello che trovereste in giro – anche nella migliore pasticceria.

 

Sapete perché? Non era fatto con la gelatiera, Valentino ed il suo collega hanno fatto il gelato a mano come una volta, con la salamoia, a forza di girare in una vasca spessa due millimetri formi i cristalli, li stacchi, e aspetti, e poi monti il ghiaccio e l’aria insieme e l’algido amico diventa soffice come mai. ‘Come se facessi una barca di carta e la lasci’, ci ha raccontato, ‘e vedi dove va’.

‘Certo se fai quattro chili di granita a mano è dura, devi ingegnarti’.

 

Nessuno sa, ovvio, che la granita è stata fatta a mano per centinaia di persone, sarebbe stato bello mostrarlo ci dice, mentre ci informa che ha usato limone di Sorrento e Limone Verdello. Voi che leggete sì, magari tra di voi c’è anche qualcuno che l’ha assaggiata.

 

 

Cominciamo dalla ricetta della granita di limone ‘del deserto’. Quando cucini è come se scrivessi una poesia…Con il cuore e con la tua poetica racconti una storia per emozionare qualcun altro. Lo fai con ingredienti, con il gusto non con le parole, ma il risultato è lo stesso!

 

Non è solo la texture a farla sembrare una granita primordiale…o del deserto…

 

Esatto. La granita ha tantissimi anni. Nessuno ha inventato niente. Quando ero ancora più giovane di come sono, ho iniziato a lavorare nelle cucine cominciando dal reparto pasticceria e ho avuto l’opportunità di approfondire questo percorso, talmente infinito che ogni volta puoi cambiare il prodotto…

 

Con la granita (zucchero, limone, acqua) ad esempio puoi decidere di utilizzare anche la buccia di limone, ad esempio. Certo, ci sono limoni …e limoni: io preferisco quelli della mia terra (Sicilia) che hanno delle note diverse. Il limone verdello è più fresco e frizzante: insieme all’acqua ho aggiunto qualche granello di sale marino (che dona sapidità: le papille gustative sono un pianoforte: il gusto va suonato).

 

Quando ero piccolo giocavo tutti i giorni con la sabbia e spesso mi finiva in bocca, da lì è nata l’idea perché in questo piatto travaso i ricordi di tanti pomeriggi spesi al mare con mia madre.

 

Vedi, tu mi chiedi la ricetta ma in cucina una ricetta è solo un’indicazione – come dire, una direzione: Licata, Bologna, Londra – ma poi devi aggiungerci l’anima. La soul kitchen, la chiamo io: il coraggio di mettere il tuo carattere in campo per fare tuo un prodotto, una ricetta. E’ come se fosse amore, sentimento. Anzi, no: è amore e sentimento!

 

Dato che la ricetta è ‘solo’ un’indicazione, devi sempre assaggiare ed aggiustare: un limone in più, uno in meno; un po’ di buccia in più o in meno. In linea generale, occorre macerare in acqua e zucchero il limone, per estrarne gli oli essenziali. E con la raspola si gratta l’estremità della buccia, restando superficiali per evitare di inglobare la parte amara, la si mette in infusione a riposare un paio di ore. Se il pH che ottieni ti piace (ognuno ha un palato diverso e ogni giorno anche il proprio cambia) fermi il processo di infusione e procedi nella preparazione.

 

A proposito della diversità delle persone, il sole ha un ruolo fondamentale, non solo nei limoni che maturano meglio. Chi nasce dove c’è tanto sole e mare, riceve più positività di altri.

 

 

Torniamo a te, dove nasci?

 

A Licata nel 1988, il 14 febbraio. Mia madre casalinga, mio padre fruttivendolo. A 12 anni conobbi uno chef che era cliente della bottega di mio padre.

 

 

Se non fossi stato siciliano sarebbe stato lo stesso?

 

Credo che la mia sensibilità sia il frutto della mia famiglia, di come mi hanno cresciuto. Penso che si possa essere qualsiasi cosa e persona, ed essere nati ogni dove, ed essere positivi se quando ti svegli la mattina sei divorato dalla passione di scoprire, assaggiare, bere l’acqua di quella sorgente, camminare e osservare. Essere in movimento, sempre.

 

 

Quindi il primo contatto con il mondo del lavoro è stato quello chef

 

No. Aiutavo mio padre in bottega tutti i giorni dopo scuola. Il pomeriggio si partiva insieme per i mercati e la cosa più bella che ricordo è che ascoltavamo musica. Mio padre cantava ed io con lui, canzoni in dialetto o di Lucio Battisti. Non c’era una canzone preferita: c’era l’anima, l’amore, il momento.

 

Ho tre fratelli e una sorella. Siamo tre generazioni che vendono la frutta da una vita. Io sono stato l’unico che cambia e prova una nuova esperienza. Da quando sistemavo le mele e facevo le ceste di frutta, sono poi andato a lavorare nelle cucine.

 

Ho iniziato nelle cucine come se fosse un doposcuola, quasi un gioco. Mio padre mi disse: prova a fare qualcosa di diverso. Rispetto ai miei fratelli io ero appassionato di dettagli, e lui ha intuito che potessi essere versato anche per altro.

 

Inizio, appunto, lavorare con lo chef che veniva a fare la spesa da noi, si chiama Pino Cuttaia. E’ il mio maestro, mi ha insegnato le basi e tutto quello che ho fatto.

 

Sono un autodidatta, mi sono formato nei ristoranti dove ho lavorato.

 

Per quasi dieci anni ho lavorato a Licata a La Madia, a 21 anni ho deciso di partire per conoscere nuovi orizzonti e sapori. Non sapevo quale fosse la strada giusta, ma volevo partire.

 

Sono partito per andare a lavorare in un grande ristorante a Milano, poi ho lavorato da Peck (una grande gastronomia deluxe) che mi ha arricchito moltissimo. E poi ho lavorato da Trussardi alla Scala: ho voluto ritornare a lavorare in un ristorante per avere il contatto con il piatto, per trasmettere quel ‘fuoco interiore’.

 

Dopo sono stato a Villa Feltrinelli (Lago di Garda) come pasticciere, una bellissima esperienza stagionale.

 

Dopo ancora, in Svizzera per l’apertura di un nuovo ristorante, a Ginevra. E’ stata una bella esperienza, il paese è un luogo di rigore e di galateo. Ci sono sempre i pro e i contro, ma sono maggiori i pro.

Gli svizzeri mangiano ad orari diversi ed hanno tradizioni diverse ma se apri un ristorante italiano penso sia facile comunicare con loro anche se devi operare delle ‘traduzioni’.

 

Il bello del cibo è che tu puoi entrare nel corpo di una persona, questo è il massimo. E’ già bellissimo prendersi cura di qualcuno preparando da mangiare, ma da chef pensi proprio al piacere di una persona. Ti svegli la mattina, mentre ti fai la barba magari canti, e pensi a quello che stai per fare per gli altri. E’ un’atmosfera meravigliosa. Anche se fai un piatto di pasta di pomodoro – due ingredienti; pasta pomodoro e poi una foglia di basilico – puoi fare innamorare il mondo. Alla fine la semplicità, parlando d’identità italiana, è quella che ci rappresenta meglio in cucina.

 

 

Cosa ti ha dato Licata e cosa pensi di aver dato alla tua città, anche se non lo è più veramente da molti anni?

 

Licata mi ha dato tutto. Il mio sangue, il mare, il fuoco. La mia famiglia, tutta la loro storia: costruivano strade i miei nonni, mentre mandava i figli a lavorare i campi (parliamo del 1940). Sono felice perché ho avuto l’opportunità di vivermi i nonni, che in poche parole spiegavano l’umiltà e l’amore per la famiglia. Lì la crisi c’è sempre stata, non c’era il sogno di studiare ed avere una vita diversa.

Licata è bella perché è solo lì. Napoli del pari. Alcuni posti è impossibile replicarli ed è anche difficile raccontarli solo con le parole. Certe cose vanno vissute.

 

Poi Licata per me significa amicizia. Ad esempio Giuseppe Antona, un bar tender, anche lui ama molto le granite. E un altro mio collega, Giuseppe Basile, con cui andavamo a raccogliere l’argilla nelle montagne per fare la ceramica, ricordo la sua consistenza che sembra pelle. A volte la perfezione è priva di vita, la sua lavorazione imperfetta e così naturale era straordinaria.

 

 

Dove ti vedi tra dieci anni, se dovessi provare ad immaginarti? Avrai 40 anni…

 

Dove c’è gente che ride, dove c’è il sole ed il mare, dove c’è gente che sa amare. Che sa apprezzare la vita per come è. Sicuramente mi piacerà ancora molto cucinare, che per me è comunicare la memoria della mia famiglia, il mio percorso e quello che amo. Sono legato alla cucina perché senza non saprei cosa fare, divento nervoso, quasi non ho l’argomento giusto (non perché non mi interessi altro, ma perché vivo di questo). Ho capito che quello che ho nelle mie mani, sono solo un normalissimo cuoco, è tutto. Inizio a cucinare ma poi sono i pomodori che prendono me. Anche per un ballerino è lo stesso: inizia a ballare e poi la musica prende tutto il suo sistema nervoso ed è l’anima che balla.

 

 

Scrivi, hai un rapporto con la letteratura?

 

Prima scrivevo e fotografavo, soprattutto, e avevo anche un blog ma poi mi sono fermato per mancanza di tempo, errori e delusioni.

 

 

Un talento che hai uno che ti manca, a parte la cucina

 

Talenti non so. Difetti: la fase dell’adattamento ogni volta che vado in un nuovo posto, ho bisogno di tempo. Cambio spesso il mio posto di lavoro. Ma cambio anche io di anno in anno – e questo si aggiunge a tutto il resto. Ed è anche il bello della vita.

 

 

Il tuo piatto preferito e la tua bevanda preferita, non come cuoco

 

Sicuramente la pasta al forno di mia madre. Si fa la domenica da noi, ed insieme alla tradizione, penso sia amore. E’ una pasta così ricca di cavolfiore, ragù di carne in bianco, pomodoro, spaghetti. E’ un timballo, pertanto è ancora più buono il giorno dopo e mia madre ne faceva sempre una teglia in più. Che io e mio fratello, eravamo in tanti a casa, mangiavamo sempre volentieri.

 

Adoro la gazzosa, con il limone. Anche lì ho un ricordo: il panino con la mortadella o il salame, quando andavo a lavorare con mio padre, lo accompagnavamo sempre con la gazzosa (o con il chinotto) che davano una scossa con la loro anima frizzante. Alle 10 di mattino, quando avevi già fatto cinque o sei ore di lavoro, mangiavi quel panino e bevevi la gazzosa e tutto ripartiva! Da vero muratore!

 

 

Cosa leggi?

 

Vado a momenti: ad esempio oggi leggo la tua storia, domani Topolino e poi un libro di cucina. Fino a cinque anni fa ero compulsivo, compravo tantissimi libri di cucina e spesso non avevo tempo di leggerli tutti. Quando cresci, diventi più maturo, ti calmi, e sai che sei una particella compresa nel mondo e occorre sapere un po’ di tutto, non solo di quello che fai.

 

 

Musica?

 

In questi momenti veneziani, Battisti e Battiato e anche Lucio Dalla: due cantautori che mi accompagnano e mi danno molte emozioni, spesso quando sono al mare.

 

 

Obiettivi?

 

A volte devi guardare anche fuori dall’oblò. L’acqua di Venezia mi ha dato la possibilità di guardare di più dentro di me, mentre osservo la gondola o il bambino che dà il pane al piccione ed ancora la folla che scivola lentamente. Se ti faccio la stessa domanda (dove sarai tra dieci anni) tu sapresti rispondere?

 

 

Non saprei, è difficilissima, ma sicuramente non sarò qui a Venezia. Neanche tornerei nella mia città natale (Napoli), forse però potrei ricreare un’idea di Sud. Di sicuro sarò molto più vecchia di te e quindi ancora più pacificata e forse più pronta a trovare un posto che possa chiamare casa. Anche io girovago un po’. Meno di te, ma abbastanza.

 

La domanda era per scherzare! In realtà ultimamente ho conosciuto varie persone che mi hanno chiesto cosa volessi fare da grande. Io penso che in questa vita nessuno avrà mai la sicurezza di qualcosa. Chi ce l’ha, ha qualcosa di temporaneo, la definirei una solidità precaria. Io non so esattamente dove voglio andare, ma voglio andare dove c’è l’amore.

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