Alessandro Musto, Torino

La tua vita fino ad ora in 10 righe

Sono nato a Torino 40 anni fa, a Mirafiori, il quartiere della FIAT, per intenderci. Proprio ora, mentre rispondo, mi viene in mente che ho messo per la prima volta in vita mia piede dentro la FIAT soltanto un mese fa, in un pezzo di fabbrica abbandonato e poi rinato, dove adesso si organizzano fiere e mostre. Ho studiato Scienze della Comunicazione, sognando di fare il giornalista. Dopo un paio d’anni di gavetta ho capito che non si poteva inventare granché, scrivendo per un giornale, allora ho smesso, ripiegando sul sogno dell’editoria. Mi sono trasferito a Milano, dove ho appagato in pieno la mia sete di cose inventate, lavorando per case editrici di romanzi rosa e di cataloghi d’arte. Poi ho esagerato con la fantasia, e allora ho avuto bisogno di tornare nella misurata realtà di Torino.

 

 

‘Via Artom’ è il tuo primo romanzo, ha vinto il premio Rai La Giara, un riconoscimento importante e sta ricordando agli italiani la figura di Emanuele Artom, il partigiano ebreo a cui è intitolata una strada periferica di Torino. Quanto è stato voluto questo riportare alla memoria collettiva Emanuele Artom?

Parecchio voluto. Emanuele, nel corso degli anni, è stato dimenticato dai torinesi, forse proprio perché era molto torinese: cioè sobrio, lontano dalla retorica, dall’enfasi. Poco “appariscente”. Una persona discreta, ma con un coraggio e un’intelligenza fuori dal comune. Ho provato, più che a ricordarlo, a raccontarlo da capo. Con un linguaggio che non è quello utilizzato per i personaggi “rilevanti storicamente”. Inventando, anche, ricostruendo alcuni spazi della sua esistenza non documentati. E poi ho provato a farlo convivere – in un certo senso – con ragazzi del nostro secolo, nella stessa città, nella stessa casa.

 

 

Nel tuo libro c’è una non velata contrapposizione tra gli ideali e la personalità di Emanuele Artom, quale l’hai ricavata dai diari e da testimonianze dell’epoca, e la gioventù torinese contemporanea, che nella storia che narri sembra oscillare tra narcisismo, impegno e superficialità.

Io non saprei come definire la gioventù torinese, e Via Artom non ha ambizioni sociologiche o antropologiche. è solo un ritratto, parziale e limitato. Nel romanzo provo a immaginare le vite di alcuni ragazzi che hanno grosse difficoltà a crescere in una città europea del ventunesimo secolo. Nel complesso risultano impacciati, spesso sopra le righe, e anche patetici. Alcuni di loro hanno grosse difficoltà a distinguere l’impegno dal “teatro dell’impegno”, per così dire. Altri non riescono a capire di chi possono fidarsi. Altri ancora nemmeno sanno che cosa desiderano davvero, e si buttano a capofitto a destra e a manca. Il confronto con il generoso eroismo di Artom è per loro degradante, naturalmente. Ma lo è per tutti noi. Per chiunque faccia una vita comoda, con orizzonti limitati, e scopra che cosa hanno fatto davvero alcune persone nel 1943-1945 per i loro connazionali, per il loro Paese.

 

 

Alcuni personaggi di Via Artom sono magrebini e intersecano la vita dei nati a Torino quasi come una cartina di tornasole, ne mettono in luce le ombre. E sono figure con zone d’ombra loro stessi, in buona parte. Come vivi la forte presenza di residenti di origine extracomunitaria nella città, nei suoi netti quadrilateri sabaudi?

La vivo con felicità, e poi con un grosso spirito di rivalsa e trionfo, verso chi non li vuole. Vedere la mia città sempre più affollata di etnie diverse è uno smacco per chi odia l’idea di una società aperta, stratificata, accogliente. E io sono felice di assistere, ogni giorno, alla sconfitta del loro progetto, se così si può definire. Comunque, anche in questo Torino è una città unica. Sa accogliere, sa lavorare con pazienza all’ospitalità di chi arriva da lontano. Il tessuto cittadino è fitto di associazioni ed istituti che operano in questo senso. La proverbiale indifferenza, la freddezza, dei torinesi non esiste, è frutto di un equivoco: in realtà si tratta di rispetto. Torino è una città rispettosa. Senza clamore, con grande eleganza, “fa finta di non vedere” nel senso migliore del termine: e cioè permette una convivenza serena. I torinesi non giudicano, osservano (parecchio, sono molto attenti) ma non fanno pesare lo sguardo, per così dire. Parlando di zone d’ombra, invece, bisogna dire che Tarik, il personaggio del romanzo, è giovanissimo, e arriva a Torino con molte carte da giocare. è svelto, intuitivo, sa parlare al cuore delle persone. Ma si scontra subito con un terribile dato di fatto: non può vivere come i suoi coetanei italiani, perché deve conquistare da solo ciò che loro possiedono per nascita. Immagino che questo sia uno degli ostacoli più duri da superare, per chi deve ricostruirsi un’esistenza tanto lontano da casa.    

 

Alla fine da 100 a 1, quanto ti senti torinese?

58. Un po’ più di 50, ma meno di 60. I miei genitori sono lucani, quindi ho un freno naturale alla torinesità. Essere torinese è molto facile e dolce a Torino, ma altrove può essere invalidante. Tipo a Napoli o a Roma, non si può. Si rischia lo sfottò continuo. Quando ci vado devo dimenticarmi certi formalismi, certi pudori, e (bellissimi, per carità) rituali di educazione che a Torino sono necessari, ma che altrove possono suscitare gran divertimento e scherno.

 

I luoghi di Torino che ami e quelli che proprio non sopporti?

Di Torino non amo i luoghi invecchiati male, senza ripensamento urbanistico, pieni di costruzioni abbandonate e ammassate; poi le piazze gigantesche sacrificate alle auto (come piazza Statuto), infine i giardinetti e i parchi governati da eserciti di pusher. Amo molto il selvaggio e gigantesco Parco della Pellerina, le sponde del Po, i circoli di canoa e i locali sul fiume al Parco del Valentino; e poi la serenità che danno alcuni antichi quartieri come Campidoglio e Borgo San Secondo, poco chiassosi e un po’ malinconici.

 

Cosa bevi quando esci di sera, c’è qualche drink tipicamente torinese, qualche rito a cui ti sottoponi volentieri?

Un tempo a fine serata si andava a prendere il misterioso cocktail che si chiama Tamango, in un piccolo locale buio che non sono sicuro esista davvero (passandoci di giorno non riesco mai a identificarlo, vedo solo muri)… Si tratta di un mistico beverone rosso che sa di ciliegia, dalla potenza mostruosa e gli effetti allucinogeni. Poi sono invecchiato, e mi sono arenato alla cara vecchia birra. Doppio malto se proprio voglio esagerare.

 

In che modo cerchi di vivere lentamente, c’è un momento speciale della giornata in cui ti concedi di guardare il tempo che scorre?

La lentezza non ha mai fatto parte del mio carattere, e proprio per questo la cerco di continuo, la vedo come una conquista, a volte un miraggio. A ora di pranzo, quando smetto di lavorare per un’ora, cammino come imbambolato per corso Vittorio Emanuele, bradicardico. A volte mi rendo conto di fissare i passanti come se vedessi umani per la prima volta. In quei minuti, forse, rallento davvero.

 

Il libro che leggi in questo momento

E non disse nemmeno una parola, di Heinrich Boll

 

La musica che ascolti più spesso

Giganteschi archivi di mp3 suonati random dal computer, oppure radio sintonizzate a caso: sono un ascoltatore distratto. E soprattutto, forse, mi piace farmi sorprendere dalla casualità.

 

La storia di Alessandro Musto è stata scelta da Emina Cevro Vukovic, scrittrice che l’ha intervistato.

Per gentile concessione dell’autore e di Rai ERI, editore, pubblichiamo qui un estratto di Via Artom.

 

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