Andrea, fotografo

Italia, tormento ed estasi. Quando arrivi a Monditalia, sezione della Biennale di Architettura di Venezia composta di 82 film e 41 progetti di ricerca di giovani architetti di tutto il mondo che parlano del nostro paese, organizzati su una griglia geografica che immagina di percorrere da Sud a Nord tutto lo stivale, ti blocchi quasi subito davanti un grande arco, tappezzato di 36 fotografie a colori di grande formato che raccontano in modo inusuale e attento di un territorio devastato dal terremoto.

L’Aquila’s Post-Quake Landscapes (2009-2014) è una prima presentazione di una ricerca che da 5 anni osserva direttamente sul campo le trasformazioni urbanistiche e del paesaggio della città-territorio dell’Aquila. Il progetto consiste della ricerca visuale esposta insieme a un archivio di micro-storie delle trasformazioni socio-culturali che hanno un impatto sullo spazio fisico del territorio aquilano, raccontate dagli stessi promotori e raccolte in un sito internet che diventerà presto una pubblicazione www.laquila.professionaldreams.net .

Il progetto di ricerca è stato realizzato da due architetti, Andrea Sarti e Claudia Faraone.

Incontro Andrea Sarti nella sua casa studio veneziana bianca e ordinata, piena di straordinari progetti fotografici, gli ultimi sulle periferie pubbliche italiane e sui commons della cultura. E’ domenica pomeriggio, durante un temporale estivo che trasforma i canali attorno a San Giacomo all’Orio in un fiume d’acqua scura.

 

La tua storia in poche righe

Nasco a La Spezia il 4 giugno 1972, Gemelli: figlio di un architetto e di un’insegnante di educazione artistica. Fin da piccolo ho respirato l’aria del fare, che poi ho anche praticato subito, soprattutto nella costruzione di una casa che è stata una vera scuola di vita. Mio nonno decise di costruire nella campagna da dove veniva e ha coinvolto tutta la famiglia, soprattutto me e mio fratello. E’ stata la prima volta che ho sperimentato come una costruzione possa venir su con le proprie forze, la fatica e i risparmi di una vita. Faticoso ma istruttivo. Faccio ciò che mi piace fare perché non potrei fare diversamente: sono istintivo.

Ho frequentato l’istituto per geometri con poca voglia, volevo fare il liceo artistico. Ho cominciato ben presto, infatti, a non studiare più. Poi sono stato chiamato a fare il militare, dove ho iniziato a leggere i libri di arte e architettura che prendevo dagli scaffali della libreria di mia madre.

Lì ho maturato la decisione di studiare architettura. Verso la fine della ferma, ho accumulato le licenze per non prestare servizio per un mese intero e ho girato l’Italia dove c’erano tutte le facoltà di architettura, all’epoca il test di ingresso non era molto evoluto e si poteva fare in diverse città. Genova, Firenze, Ferrara, Milano, Roma, Venezia. A farmi scegliere la facoltà è stata la città.

Quando arrivo a Venezia la prima volta, sbarco come tutti a Santa Lucia, scendo i gradini della stazione di mattina presto. La barca della frutta percorreva il tratto di canale prospicente, la cupola di San Simeon Piccolo era illuminata dal sole nascente, ho capito subito che era un altro mondo. Una città talmente diversa da tutto: esattamente quello che cercavo. Essendo nato in una città di mare, anche solo il rumore dell’acqua mi basta. Ce l’ho dentro, mi appartiene, non posso restarne lontano. Ho scelto Venezia senz’ombra di dubbio.

Non sapevo che l’università di Venezia fosse molto quotata come facoltà. Erano gli ultimi anni in cui avrebbe ancora insegnato Aldo Rossi, poi c’erano Vittorio Gregotti, Gino Valle, del quale sono stato studente e che mi ha insegnato moltissimo. C’erano Purini, Secchi, Polesello dei quali sono stato studente: tutti grandi ricercatori teorici, oltre che professionisti.

I primi due anni ho vissuto a Marghera, poi Venezia in questa casa (due piani in cui casa e studio si fondono in un tutt’uno arredati con gusto tra modernismo anni ‘30 e alcuni innesti contemporanei, tipo una sovra-scala di legno di pino cileno su uno splendido marmo bianco consunto dal tempo) dove ai tempi abbiamo abitato anche in sette. Mi laureo insieme a Claudia Faraone (la sua compagna di vita, originaria de L’Aquila ndr) sotto la direzione di Bernardo Secchi con Intemittent Cities, un progetto d’uso pubblico degli spazi privati in attesa di trasformazione della città diffusa veneta.

Da allora, anche se abbiamo avuto diversi percorsi di specializzazione e lavoro, abbiamo collaborato e condiviso varie esperienze di ricerca urbana, tra cui questa su L’Aquila.

La sceglieresti ancora Venezia?

Se tutto fosse come all’epoca sì. Ora forse, con gli studi fatti e soprattutto con il lavoro che ho, forse guarderei più una città metropolitana, che sia ricca di attività culturali e iniziative artistiche “underground”. Venezia ne offre molte, ma da consumare e che nella maggior parte dei casi non nascono dal milieu culturale cittadino, più per turisti.

Perché dall’architettura alla fotografia? Cosa c’è di mezzo?

E’ un passaggio che fanno molti. Tantissimi fotografi di architettura sono architetti prima. Io amo l’architettura e non ho scelto la fotografia per una delusione o ripiego, ma perché credo che lo sguardo fotografico sull’ambiente costruito possa disegnare nuovi spazi e restituirne altre percezioni.

Da studente di architettura ero un assiduo frequentatore di biblioteche, prima la Querini Stampalia, poi la biblioteca di architettura del Tolentini, quando intorno al 2000 era stata messa a disposizione degli studenti dello IUAV una cospicua donazione di libri di fotografia e mi sono immerso nel loro studio. Proprio sulle riviste e libri di settore lì conservati è nato il mio amore per la fotografia, studiando i progetti fotografici di Ghirri, Chiaramonte, Guidi, Rosselli, Basilico, tutti i grandi fotografi italiani.

Non ho voluto praticare la fotografia fin da subito perché avevo intuito che sarebbe stata una passione troppo forte e che mi avrebbe distolto dalla laurea in architettura; poi per alcuni esami di urbanistica e progettazione nei primi anni del 2000 ho dovuto fare delle fotografie, contemporaneamente ho seguito il corso di storia della fotografia di Italo Zannier e da lì è cominciato tutto. Mi faccio regalare una Hasselblad usata da mia madre e poi pian piano creo una camera oscura al piano terra. L’attrezzatura è andata aumentando e Porto Marghera è stata la mia palestra. Un attimo prima della tesi di laurea, un amico mi propone il mio primo lavoro: fotografare lampade interattive per una ditta di Treviso. Ricordo che spesi tutto quel che ho guadagnato. Venivo da una passione e non era ancora la mia professione. Proprio in questa casa ho installato i primi set, tra cui una vasca piena d’acqua che occupava tutta la sala da posa. Chiedevo agli amici di posare, facevo molte polaroid, scattavo in analogico e vivevo immerso in metri di pellicole.

Ho sempre fotografato principalmente oggetti di ogni dimensione e spazi. Dal 2007 ho cominciato a fotografare anche persone (fino al 2012 è stato il fotografo ufficiale della Peggy Guggenheim Collection di Venezia, dove oltre a fotografare gli allestimenti, le opere e l’edificio, spesso fotografava i personaggi e le celebrità che la visitavano ndr). Anche quella è stata una bella palestra. Ora il mio canale è sempre più l’architettura, gli interni, gli allestimenti museali e le opere d’arte.

Un momento appagante della tua vita?

Mi trovi proprio nel momento in cui devo risponderti che è questo. Dopo anni di fatica in cui sono stato impegnato a crescere in fotografia, e dopo averlo fatto in architettura. Oltre la bella opportunità di esporre alla Biennale infatti, sto lavorando direttamente per le esposizioni curate da Rem Koolhaas e OMA-AMO : ho fatto tutte le foto del making of delle Corderie dell’Arsenale e del Padiglione Centrale dei Giardini e ora sto fotografando le opere e i progetti finiti. Quindi ho avuto due ruoli: vestito da muratore allestivo il mio lavoro e poi, smessa la tuta, fotografavo l’allestimento e le opere esposte!

Perché la forma dell’arco per il tuo lavoro? Perché un significato architettonico alle macerie? Un piedistallo un po’ inusuale per delle fotografie…

Rappresenta uno dei tanti muri che rimane impresso quando visiti una città terremotata: spesso sfondato, senza tetto, senza più una porta attaccata. E’ un elemento di costruzione (tema della biennale, intitolata Fundamentals, ndr), una sorta di soglia che ti fa passare all’interno di una situazione sconosciuta, vista la poca copertura dei media, e non solo, di ciò che sta succedendo al territorio aquilano oggi.

Una delle nostre principali gioie infatti è aver portato per la prima volta nell’esposizione principale della Biennale di Architettura la storia attuale di questa ferita, anche se è avvenuta cinque anni fa. Quando c’è stato il terremoto in Cile nel 2010, a Venezia il loro padiglione nazionale è stato dedicato ai progetti post-emergenza, così come nel 2012 il padiglione giapponese ha addirittura vinto il premio come miglior padiglione con un progetto post-catastrofe per Fukushima. Noi no. Non l’avevamo ancora fatto. Il dibattito architettonico nazionale ha deciso di ignorare L’Aquila e non se ne capisce il perché. Tutto è durato il tempo dei riflettori su Berlusconi con il progetto C.A.S.E. (Complessi Anti-Sismici Eco-Compatibili). Mentre la ricostruzione dell’Aquila richiede un tempo lungo, decadi, tanta pazienza e attenzione… e non può essere solo una ricostruzione fisica, ma anche sociale. E’ proprio un caso tipico italiano: ricostruiamo male, senza concorsi architettonici e pianificazione urbanistica, con poco accompagnamento sociale. All’Aquila al posto di anonime palazzine anni ‘60 se ne tirano su altre uguali, se possibile anche più brutte: un’architettura, anzi meglio un’edilizia perdente, ricostruita dov’era e -più o meno- com’era, un falso. Abbiamo una grande tradizione architettonica e urbanistica, ma ce ne dimentichiamo. Oppure vogliamo continuare a sbagliare, perché forse fa più comodo, è più semplice osservare questi meccanismi dall’esterno e ignorarli per non rischiare le critiche mosse all’architettura e all’urbanistica dopo i casi del Belice, dell’Irpinia, dell’Umbria, del Molise. Oppure certi meccanismi funzionano meglio in questo modo, senza coinvolgere professionisti che si dedicano alla qualità dello spazio costruito e che potrebbero rendere più esposti processi amministrativi di affidamento d’incarico, e lo dico perché abbiamo un caso anche qui a Venezia di scandali dovuti a grandi opere (si riferisce al recente arresto del sindaco – avvenuto alla vigilia dell’inaugurazione della Biennale di Architettura, quindi sotto gli occhi di centinaia di giornalisti da tutto il mondo, per vicende di corruzione legate all’ opera pubblica del Mose, ndr).

L’Aquila, e l’Italia tutta, ha perso un’occasione straordinaria che pur nascendo da un evento tragico avrebbe potuto essere un esempio di architettura con la a maiuscola, un fiore all’occhiello con il quale l’Italia si poteva presentare al mondo intero . Si può comprendere che in un primo momento di emergenza sia stata data la precedenza alle costruzioni per l’emergenza: certo, un anno ci sta tutto, ma poi gli altri quattro già passati? E invece è un nulla e non detto.

Come avete fatto a scegliere ordine e quantità di immagini da esporre in Biennale?

La quantità è venuta fuori dalla dimensione dell’arco su cui sono esposte. Sono organizzate per macro-temi: Città altrove, Sospensione, Ricostruzioni, Demolizioni, Assenza, Temporaneità, Trasformazioni. Categorie descrittive che cercano di restituire una narrazione più complessa di quella che ormai si fa di L’Aquila, non è tutto a posto e ricostruito e non è tutto distrutto.

Ovviamente le fotografie sono molte di più di 36 e sto lavorando per pubblicarle in un libro. Sono cinque anni pieni di foto e altri cinque ne passeranno: dal territorio circostante voglio entrare a fotografare nella città compatta dove ci sono moltissimi edifici in ricostruzione.

 

Cosa ti ha dato Venezia?

A Venezia mi sono ritrovato, ho potuto crescere e lavorare bene. E’ una città in sintonia con il mio carattere. Qui non sono stato disturbato, ho potuto progredire liberamente. Le attività culturali, musei, architetture e palazzi storici da visitare sono tantissimi. Se vuoi, potresti girare ogni giorno dell’anno.

 

Cosa hai dato a Venezia?

Cerco di rispettarla Venezia, il più possibile. Ha un equilibrio delicatissimo. L’ho rispettata anche scegliendola, sai vivere qui è molto difficile. Devi essere in sintonia con lei, alle volte ti soffoca, non la capisci, vuoi andare via e prendere aria. Ma quando torni è li che ti aspetta, consueta e accogliente e ne sei anche più innamorato di prima.

 

Sei un buongustaio, ti piace cucinare. I tuoi piatti preferiti e le tue bevande?

Amo la qualità e la genuinità, ingredienti semplici, perché non ho un palato da haute cuisine, sarà che non sono stato abituato da piccolo ad assaggiare piatti particolarmente complessi. Amo due cose che mi mancano molto e quando torno a La Spezia mangio sempre: i panigacci e i testaroli, al pesto e al ragù. E’ una cucina povera, contadina: acqua e farina. Amo la birra, è incredibile quanto mi appaghi alla fine di una giornata molto faticosa. Il primo sorso è veramente fantastico!

Musica e libri?

Siccome la maggior parte della musica l’ascolto quando lavoro, la uso in funzione di quel che devo svolgere, mi piacciono l’elettronica o l’heavy metal, ma ascolto anche il jazz. Leggo i libri di fotografia, legati alla critica, alla storia, alla teoria. Ad esempio rileggo spesso i libri di Claudio Marra, come questo, scritto insieme a Francesca Alinovi La Fotografia. Illusione o rivelazione? Mentre ora sto leggendo un libro di Roberta Valtorta Luogo e identità nella fotografia italiana contemporanea.

Un talento che hai e uno che ti manca?

Appassionarmi e dedicarmi molto senza farmi spaventare dalle difficoltà. Escludo forse un po’ troppo quello che sta ai lati, questo può essere un difetto a volte, ma mi permette di non perdere di vista il risultato che voglio raggiungere.

 

Cosa hai imparato dalla vita?

Che non esistono tappe fisse per raggiungere i propri obiettivi, e che questi non sono legati a un periodo storico o una cronologia della nostra vita ma piuttosto al proprio percorso di ricerca, nel quale ti perdi e ritrovi.

Questo mi ha insegnato a non abbattersi. Mai.

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