Leïla, Ginevra

La tua storia, condensata, iniziando dalla nascita, dalla famiglia e dall’infanzia

 

Sono la nipote di Ali el Ghaïaty, un nazionalista egiziano che ha lottato per l’indipendenza dell’Egitto tra le due guerre mondiali, e di Lucienne Jacquemot, che poi divenne Aïcha el-Ghaïaty, una svizzera nata a La Chaux-de-Fonds. Mia madre, Jamila el-Ghaïaty, nata a Ginevra, ha sposato quello che diviene mio padre, Ibrahim Moukhtar el-Wakil, in Egitto. Mi padre è nato a Mansoura (vicino al Delta del Nilo) e ci siamo trasferiti tutti per tre anni a Manchester dove lui completò il suo master. Studi da giornalista, divenne il direttore della Lega Araba a Ginevra negli anni Sessanta. Ci siamo poi trasferiti da Il Cairo a Ginevra quando avevo tre anni. E’ qui che sono cresciuta ed è qui che ho fatto l’università. La mia famiglia è aperta e cosmopolita, mischia la cultura egiziana e quella svizzera: amiamo parlare un misto di arabo, francese ed inglese. Mi ricordo ancora che mi guardavano come ‘una Araba straniera’, quando ero a scuola e quando Ginevra non era così aperta come è adesso. Quando dovevo scegliere dei miei studi superiori, fui subito attratta dall’architettura – più che altro per distinguermi dai miei genitori che erano entrambi dei laureati umanistici. Tuttavia la scuola di architettura era chiusa quell’anno che toccava a me e quindi finii per iscrivermi a Storia dell’Arte e Latino. Dopo un anno, il dipartimento di architettura riaprì e decisi di seguire entrambi gli studi in parallelo – cosa che spiega il mio particolare coinvolgimento nel campo della storia dell’architettura e soprattutto in campi come il restauro e la conservazione.

 

 

Conservazione, protezione, riscoperta – attraverso nuove semantiche – di oggetti, edifici, e dello spazio pubblico: quale parte del tuo approccio di ricerca è il più stimolante per te?

 

Prima di iniziare la carriera accademica, ho lavorato per almeno tre anni nello studio di architettura di Claude Jacotte a Losanna: era collegato all’ICOMOS ed implementava severi principi di conservazione derivati dalla Carta di Venezia. La maggior parte dei progetti riguardava monumenti od edifici storici, quindi imparai la precisione ed il rispetto che quel genere di incarichi richiedeva. Questa attitudine, il rispetto per quello che è costruito, è rimasta nella mia ricerca. Ho studiato a lungo il patrimonio locale e regionale, che ai tempi era alquanto ignorato. Il lavoro documentativo è in generale il primo step verso la conservazione – e questo mi ha motivata a studiare il lavoro e le teorie dell’architetto egiziano Hassan Fathy.

Oggi penso che gli storici dell’architettura abbiano un maggiore ruolo, direi da attivista, nel salvaguardare edifici importanti, quartieri o città. Oltre alle mie attività accademiche, per esempio, ho partecipato in campagne referendarie a Ginevra per preservare l’Ariana Museum, il Metropole Hotel, e, proprio adesso, il Museum of Art and History. Ho poi anche lanciato la ONG Save the Heritage of Hassan Fathy, che è ancora attiva.

E’ proprio parte di me condividere passione e conoscenza per la storia dell’architettura, con tutti i miei studenti e a tutti i livelli. Insegno prevalentemente di salvaguardia nel Master of Advanced Studies in Conservation and Museology.

Oggi gli studenti sono molto coscienti delle sfide ambientali e molte delle loro discussioni si concentrano sulla riscoperta di soluzioni appropriate e ragionevoli che furono sviluppate in passato.

 

 

Salon Suisse è molto flessibile ad ogni tipo di istanza culturale in un luogo così denso di storia come Venezia, che lo è in particolare durante le biennali, L’evento collaterale svizzero è l’unico spazio in città che offre una piattaforma di dialogo, permanente, lungo tutta la durata del festival. Cosa progetterai, da curatrice dell’evento, in tandem con Reporting from the Front, il tema generale della 15ma Biennale di Architettura?

 

Il tema ‘guerriero’ scelto da Aravena illustra il clima teso in cui le questioni di architettura dovrebbero essere affrontate, e capite, oggi. Uno dei problemi principali è il grande gap sociale che caratterizza il nostro mondo. Da un lato, le archistar sono chiamate ovunque per edificare per i più ricchi, mentre dall’altro milioni di persone povere vivono in condizioni senza dignità. In quest’edizione di Salon Suisse, voglio mettere l’accento sulla responsabilità sociale dell’architettura nei confronti di chi parte con meno vantaggi, offrendo uno spazio dove i tanti architetti svizzeri, e stranieri, coinvolti nel costruire un mondo migliore possano condividere le loro conoscenze e la loro esperienza. Ci darà l’opportunità di scambiare idee su argomenti che ci coinvolgono proprio tutti. Salon Suisse 2016 ci racconterà dal fronte del costruire per (e con) gli svantaggiati sottolineando il potenziale delle tecniche tradizionali e della riscoperta di saperi. Promuoverà anche la visione della professione come fonte di miglioramento umano che va oltre le mode culturali.

 

 

Le parole non sono affatto neutrali per te, visto che riesci anche a trovare il tempo per informare gli altri di cultura e patrimonio sul tuo blog (sulla versione online del quotidiano La Tribune). In uno dei più recenti post, hai citato Ruskin. In particolare, sul rischio che deriva dall’incontrare clienti ciechi ed, insieme, le peggiori idee sulla cura ed il mantenimento degli edifici (e più in generale di asset culturali). Ti occuperai anche di argomenti simili a Salon Suisse?

 

Questi argomenti possono essere assai rilevanti quando si discutono le lezioni date oggi agli architetti contemporanei dalle antiche tecniche costruttive. Io credo che in ogni campo tutti noi dovremmo imparare da quella che viene definita ‘tradizione’.

Quelli che cercano di annichilire il passato in favore di una cosiddetta modernità hanno certamente deciso di intraprendere una battaglia che porterà all’impoverimento dell’umanità. Le chiavi per il futuro devono essere cercate nella nostra storia. Spero che Salon Suisse ci dia l’opportunità di valutare gli edifici antichi dalla prospettiva della ricchezza delle loro fonti. Tuttavia, voglio principalmente usare l’opportunità di partecipare alla Biennale per stimolare chi pratica, e chi usa, l’architettura a pensare differentemente sulla prossima cultura del costruire.

 

 

In concreto, che paragoni tra la Svizzera ed il Medio Oriente possono essere trovati nelle tue lezioni e nel tuo lavoro di ricerca sull’architettura e sull’arte moderna?

 

Le motivazioni più profonde che mi spingono a studiare entrambi i contesti risiedono soprattutto nella mia biografia, ed emergono dal desiderio di contribuire con le mie due madrepatrie, Svizzera ed Egitto. Ma esistono contatti tra i due paesi in termini di pratiche architettoniche. Dal periodo coloniale in poi, molti scambi avvennero tra Europa e Medio Oriente in generale – con architetti che viaggiavano da una parte all’altra e tecniche sviluppate in posti differenti, oltre che con trend che si spostavano da regione a regione.

 

 

Quanto è dura iniziare, e continuare, l’attività di ricercatore indipendente (e di professore) nella tua città e/o in generale?

 

Dato che il mondo accademico è molto chiuso e competitivo, e dato che funziona per cooptazione, dove permane un pensiero omogeneo tra le discipline, ho trovato veramente stimolante promuovere alcune delle mie idee originali e modi di discutere il mondo dell’architettura. Grazie all’apertura tipica del contesto globale, è diventato molto più facile sviluppare metodi di ricerca più liberi, alternativi e contro-culturali.

 

 

Il più importante traguardo che ti è capitato di raggiungere di recente come ricercatrice (come docente, sei stata premiata nel 2012 come la migliore nel tuo campo!)?

 

Ogni passo è stato per me un traguardo nella lunga carriera accademica che ormai ho alle spalle, ma la cosa per cui sono più contenta ora è l’imminente pubblicazione del libro su Hassan Fathy in inglese con l’Università Americana per Cairo Press. Questa traduzione dovrebbe anche essere seguita da un’altra in arabo. Sono particolarmente felice di questi sviluppi, che permetteranno a più persone interessate di trovare le idee dell’architetto ‘a piedi nudi’ che ha dedicato tutta la sua vita alle costruzioni per i poveri.

 

 

Una cosa bella capitata di recente?

 

Ho appena scoperto la città, bellissima, di Yazd, in Iran, dopo aver partecipato ad una conferenza sull’architettura troglodita a Tehran. Ti mozza il fiato: gli edifici in terra gialla cruda mi sono apparsi come tesi a formare una delle ‘città invisibili’ descritte da Italo Calvino. Ancora una prova che le tecniche antiche son ancora assolutamente rilevanti oggi: a circa 40 gradi all’esterno, l’aria fresca circolava sotto il cacciatore di vento del giardino del Dolatabat.

 

 

Il tuo piatto preferito?

 

I Kofte, o polpette arabe. Carne macinata e trito di cipolla, aglio, prezzemolo, curcuma, etc, impastati e arrotolati a formare gustosissime polpette. Cucinatele sempre lentamente, con fuoco basso, in una pentola grande aggiungendo sugo di pomodori. Da servire con riso a chicchi lunghi ai tanti ospiti che inviterete. Ecco. Ci siete, Paradiso in terra.

 

 

E la tua bevanda o vino preferito?

 

Carcadè freddo – una bevanda egiziana fatta di fiori d’ibisco. Oppure Omar Khayam, un famoso vino egiziano.

 

 

La musica ed il libro con te in questo momento (e dove sta il libro)?

 

Sto ascoltando un cd di tango intitolato Unforgettable Turkish Tangos e sto leggendo un libro, Da Gorizia all’Impero Ottomano: Antonio Lasciac Architetto, pubblicato da Ezio Godoli, è sul tavolo della sala da pranzo – un coloratissimo tavolo basso che ho ricevuto in dono dai miei più cari amici.

 

 

Come riesci a vivere ‘lentamente’ in una città come la tua?

 

Ginevra, il luogo dove vivo di più, è sicuramente una città convulsa, dove ondate di persone convergono tutte insieme la mattina per lavorare. Come ricercatrice, cerco di stare alla larga dal rumore della città, rifugiandomi in biblioteche e libri, proteggendo il tempo per la riflessione, il tempo per la scrittura; il pensiero è un processo lento.

 

 

Un talento che hai e uno che ti manca

 

Penso di essere perseverante, e probabilmente mi manca la pazienza.

 

 

Dove ti vedi tra dieci anni?

 

Spero di stare a raccontarvi qualcosa dal fronte vincente!

 

 

Cosa hai imparato sin qui dalla vita?

 

A non arrendermi mai.

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