Spencer Bailey, direttore, New York

 

Benvenuto, Spencer, su Slow Words…che è una fanzine letteraria fatta di interviste!

Mi piace iniziare questa conversazione dicendo che sei l’unico giornalista di design che leggo per le interviste. Non è solo perché dirigi una delle migliori riviste di design in circolazione (Surface); è perché racconti sensazioni e sentimenti che provi con i tuoi intervistati e per il modo in cui condividi le tue percezioni con i lettori. Rendi, inoltre, il design, accessibile e comprensibile anche a chi non è del campo, ma il tuo lavoro resta comunque molto utile ai professionisti.

La tua vita è stata molto avventurosa – e non sempre semplice per te. E hai solo 33 anni, se non vado errata! (per i nostri lettori che leggono l’inglese, la pagina Wikipedia è perfetta per i dettagli)

Sono curiosa di un dettaglio molto celato nella tua biografia. Hai studiato poesia al college. C’è ancora un posto per la poesia – letta o scritta – nella tua vita attuale?

E’ vero! La mia tesi al Dickinson, un piccolo college d’arte liberale nella Pennsylvania centrale, era sulla poesia jazz, attraverso il lavoro del poeta inglese Philip Larkin. Una roba inebriante! Se la leggessi ora probabilmente farei una smorfia!

Sono rimasto interessato, ma non attivo, alla poesia sin da allora. E in un modo direi sottile, la poesia continua ad dare forma al mio lavoro da giornalista. Leggo ancora poesia di tanto in tanto ma non ne scrivo più. Mentre frequentavo la scuola di giornalismo alla Columbia, scrissi un pezzo sul perché magazine come The New Yorker ed Harper’s continuavano a pubblicare versi, per scriverlo incontrai il poeta Timothy Donnelly, che in seguito raccontai per Poetry magazine: fu la mia primissima feature in una rivista!

Su Surface, abbiamo pubblicato poesia solo una volta. Per un articolo, una sorta di celebrazione di Detroit come Città Unesco del Design: abbiamo inviato i fotoreporter Michelle e Chris Gerard a ritrarre alcuni dei landmark di design della città – il conservatorio di Belle Isle, il Detroit Naval Armory, la fontana di Noguchi’s Hart Plaza. Abbiamo poi inviato un’immagine ciascuna a diversi poeti americani, per interpretare il progetto o l’immagine a loro modo. E’ stato un pezzo bellissimo, e resta uno dei miei favoriti negli ultimi cinque anni. Probabilmente dovremo ospitare più poesia nel nostro mensile!

 

Dimmi di più di The Diner, che Surface porta a Milano durante il Salone del Mobile il prossimo aprile. Pensi di ospitare la tua serie di ‘Design Dialogues’ anche lì?

Sono davvero molto felice di questo progetto. Conosco David Rockwell da circa 10 anni e ammiro il suo lavoro a Broadway – l’altra notte ho visto il dramma Lobby Hero, per cui ha disegnato il set, ed era incredibile. Per The Diner, David reinterpreta il classico ristorante americano che trovi lungo ogni strada e lo utilizzeremo come piattaforma per esplorare il design americano di oggi. Stiamo collaborando anche con 2X4, che ha tra i suoi clienti Prada, Starbucks, e Nike, quindi fa il miglior branding, identità visiva e grafica in giro per il mondo adesso. Inoltre, avere come partner Design Within Reach e Cosentino è come lo zucchero a velo sulla torta. Stiamo ancora finalizzando i dettagli, ma presto racconteremo di più sul sito di The Diner!

 

Le serie di incontri Design Dialogues è stato il tuo marchio di fabbrica quando hai cominciato a dirigere Surface? Sono sempre molto New-York centrici?

Sì, sono stati la nostra piattaforma più importante. Il primo della serie fu con Ian Schrager e George Yabu e Glenn Pushelberg di Yabu Pushelberg, esattamente quando il numero 101 – il primo a mia firma – fu pubblicato. E’ stata una vera raffica da allora e ne abbiamo fatti più di 40. Ci sono state alcune conversazioni molto speciali. Non dimenticherò, ad esempio, quella con Julian Schnabel e Michael Chow sulla terrazza di Soho House a Miami durante Art Basel. Julian fumava una sigaretta e soffiava, letteralmente e metaforicamente, il fumo in faccia a me durante tutta la conversazione. Davvero un personaggio!

I talk sicuramente si svolgono spesso a New York ma ne abbiamo organizzati anche a Los Angeles, San Francisco, Miami, Denver, Chicago, e London.

 

Secondo te, come sta il design made in USA? Ci sono delle scuole che ammiri? Che designer e che fabbricanti di eccezione hai in mente?

Sono davvero felice di dirlo, perché è vero, che il design made in USA sta esplodendo!

Le scuole, sono davvero impressionato con quello che Rosanne Somerson sta facendo alla RISD (Rhode Island School of Design). Ammiro altresì Mohsen Mostafavi, preside della Harvard’s Graduate School of Design. E penso che il MIT Media Lab sia diventato il più interessante incubatore per l’innovazione nell’apprendimento del design nel paese – Neri Oxman e Carlo Ratti, entrambi insegnano lì, sono davvero brillanti. La Stanford d.school è anche interessante ma non sono sicuro che mi ci iscriverei. Mi piacerebbe poterla esplorare di più e meglio per avere un’opinione perfettamente formata. Penso che l’idea di ‘design thinking’ espressa da David Kelly il fondatore di IDEO (una product design company di Palo Alto, California) che d.school certamente persegue, stia scolorando, sfortunatamente. Se sento ancora ‘design thinking’ ancora una volta, mi metto a urlare.

Se dovessi rispondere anche sui designer e i produttori, andrei a finire nelle acque davvero calde. Ma ci sono veri campioni del design qui in America. Quindi, ecco i nomi, tra gli altri: Alex Rasmussen di Neal Feay Company, Gregg Buchbinder di Emeco, John Edelman a Design Within Reach, Jerry Helling a Bernhardt Design, Rodman Primack e Alexandra Cunningham-Cameron a Design Miami, Meaghan Roddy a Phillips, Alex Gilbert, ed il gallerista Patrick Parrish.

 

Nel 2016, hai pubblicato Tham ma da: The Adventurous Interiors of Paola Navone (Pointed Leaf Press). Hai un nuovo libro su cui stai lavorando? E che musica ascolti adesso?

Come fai a saperlo? Sì, sto lavorando con Phaidon a un nuovo libro ma ora non posso dirti di più.

Sulla musica, come sempre, ascolto un sacco di roba tutta insieme: Kendrick Lamar, Sampha, Andrew Bird, The National, The War on Drugs. E ho appena scoperto questo gruppo che si chiama Orquesta Akokán. Hanno solo due singoli in giro ma sin da quando li ho sentiti la prima volta sono ossessionato. Ascolto anche un sacco di podcast in questi giorni. I miei preferiti sono: Fresh Air su NPR con Terry Gross; Recode Decode con Kara Swisher; This American Life, sempre su NPR, con Ira Glass; e Longform. Ammiro davvero moltissimo l’approccio intimista alle interviste di Terry e Kara.

 

Cibo e bevande preferiti?

Il ristorante Vinegar Hill House a Brooklyn. Vacci per colazione e chiedi i pancake. Per i drink, Long Island Bar, sempre a Brooklyn. Entrambi sono in cima alla mia lista.

 

Cosa pensi ti dia New York? E cosa pensi, da cittadino, di darle in cambio?

Non sono sicuro di cosa dia alla città. Ma di sicuro prendo più di quanto do. Anche se la Bloomberg-ificazione di New York ha pulito parecchio le strade – nel bene e nel male – rimane un battito culturale che fa capolino qui e lì e non mi annoio mai. A volte, posso dire di essere sovra-stimolato, a mio detrimento. Probabilmente questo deriva dal fatto che dirigo Surface più che di vivere a New York.

 

La lentezza significa molto nella tua vita. Dove vai per rallentare?

Quando sono a New York, il mio appartamento a Brooklyn Heights è un paradiso.

Nei week end vado in cantina e suono la batteria per circa 30 minuti, giusto per perdermi nel ritmo. Qualche anno fa il batterista Billy Martin mi disse di non pensare troppo quando suono ma di provare a raccontare solo una storia, l’ho trovato un consiglio molto efficace. In alternativa, leggo. Adoro le riviste – nessuna sorpresa, dato che ne dirigo una – e ho abbonamenti al The New Yorker, Vanity Fair, e New York. Ho anche un abbonamento alla versione stampata del fine settimana delThe New York Times. Due o tre volte a settimana, vado a correre al Red Hook o attraverso il Brooklyn Bridge Park o il Brooklyn Bridge.

Negli anni scorsi, d’estate, sono scappato in un’isola greca e negli inverni sono andato per lunghi week end a sciare in Svizzera, Wyoming e Colorado. L’anno scorso sono andato in viaggio in Giappone e mi ha cambiato la vita. Stare all’Aman di Tokyo, passare una giornata con Masatoshi Izumi all’Isamu Noguchi Garden Museum a Mure, e visitare la Katsura Imperial Villa a Kyoto sono state illuminazioni per me.

 

Dove ti vedi tra 10 anni?

Sulla mia isola privata. No, scherzo. Probabilmente farò qualcosa di simile a quello che faccio oggi: cercare di aumentare la consapevolezza sul fatto che il design impatta qualsiasi cosa vediamo, tocchiamo e facciamo e quindi magari sarò il paladino di più ‘Slow Design’ – un design senza tempo e fatto per durare, fatto con tanto pensiero, con vera intenzione e tenendo sempre a mente la cura del pianeta. Più persone faranno tutto ciò proprio, migliore sarà il mondo. Solo quando politici, amministratori delegati e altri di potere capiranno cosa è veramente il design, allora cambierà davvero il mondo. I designer possono fare così tanto.

 

Cosa hai imparato sin qui dalla vita?

A capirla.

 

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