Era di legno, un legno semplice – uno scarto, senz’altro. Lavorato però da mani sapienti, liscio nella conca e con piccoli disegni decorativi sul manico. Terminava con una forma ad uncino, così da poter attraccare bene sulla striscia di ferro posta sopra il camino.
Antonia, quando cucinava, usava prendere il mestolo in continuazione. Come se fosse una sua protesi, da utilizzare tutte le volte con cura, con cautela, come se da quel gesto dipendesse anche la bontà della pietanza che stava preparando. Doveva restare tranquilla, la pietanza, messa a cuocere lentamente sopra il letto formato da calda cenere.
Il rito del cucinare era per lei ragione di vita, ovunque si trovasse. Si alzava al mattino, e già mentre ascoltava dalla piccola radiolina nera il giornale-radio delle sette, pensava a cosa avrebbe preparato per quel giorno. Tutti i giorni. Lo faceva con gioiosa ritualità, non con malcelata noia. Aveva saputo, inconsapevolmente, trasformare la ripetitività in rito, un rito di accudimento rivolto spesso a se stessa e talvolta alle famiglie dei figli, quando passava del tempo con loro in una di quelle città anonime del Nord. Dal mattino a sera viveva in funzione della preparazione di cibo: solo la colazione, caffelatte e biscotti per tutti, era priva di creatività quotidiana. Alle dieci, dopo essersi lavata e pettinata con cura quei lunghi capelli bianchi di cui andava così fiera, era pronta per andare a fare la spesa al mercato. Una spesa di stagione, s’intende. E dalle undici e trenta, in qualsiasi cucina si trovasse – piccola, la sua, spaziose quelle dei figli – iniziava la festa, si svolgeva il rito pagano della preparazione. E quando tornavano dalla scuola i nipoti, tutto era pronto. E lei serviva con dolcezza e determinazione, fino a quando tutti non fossero soddisfatti. La pasta a pranzo, quella non mancava mai, guarnita con verdure o condimenti freschi. E poi, con leggerezza, si procedeva fino al biscotto che suggellava ogni pasto.
Nel pomeriggio, dopo aver rimesso a posto tavola e cucina, si coricava nella poltrona – bordeaux in tutte e tre le case dove passava il suo tempo, casa sua e le due case dei figli. Verso le quattro, dopo una breve ma attenta lettura del giornale, era pronta per riprendere possesso della cucina. E metteva a cuocere le verdure da cui avrebbe tratto la minestra della sera: in tutte le stagioni, la cena iniziava con una zuppa, sempre servita col mestolo uncinato dai ghirigori incisi sul manico. Zuppa che spesso veniva elogiata dai membri della famiglia. E a fine cena, quando c’erano tutti i parenti di una o dell’altra famiglia, Antonia dentro di sé sorrideva: si era dimostrata utile, indispensabile, ancora una volta. A novantacinque anni aveva una precisa funzione nella vita delle sue famiglie, e le piaceva – molto. Finita la cena, si metteva per qualche minuto nella sua poltrona bordeaux a guardare un po’ di televisione, con le gambe intrecciate e i piedi che si muovevano ritmicamente da destra verso sinistra.
Ogni tanto giocava a carte con uno dei nipoti, oppure parlava con i figli o le nuore. Parlava sempre sottovoce, come se non volesse disturbare. E prima di coricarsi passava sempre dalla cucina per verificare che tutto fosse in ordine. Quando era dai parenti, alla sera toccava a figli e nuore riordinare, era un accordo non scritto di buona convivenza. E così Antonia controllava solo che avessero riordinato per bene, senza sbavature, rimettendo tutti gli oggetti al loro posto. E soprattutto si sincerava che il mestolo fosse al suo posto, quel mestolo in triplice copia che trovava in tutte le case dove passava il suo tempo. Solo allora era pronta per andare a dormire, preparandosi per i pasti a venire.
Paolo Graziano, 2013