La Pedamentina (parte seconda)

Due questioni sono veramente importanti a questo punto. Una volta attraversata la Via Pignasecca e forse conquistato il pane o una pizza per pochi euro, o un coppo di frittura, salite le scalinate di Montesanto, se i venti centesimi di notte non si trovano, è proprio un pasticcio. Ma peggio ancora è se l’ascensore è fuori servizio, allora è obbligatorio riprendere la salita e giungere al 61 in un bagno di sudore.
La posizione della Pedamentina è però invidiabile. E tutti questi inconvenienti rientrano nella categoria della trascurabilità. Non solo, potrebbe essere raggiunta più facilmente fermandosi con la funicolare al Vomero e poi scendendo poche rampe di scale. Un ottimo modo sarebbe giungere in macchina da Via Asor Rosa e Piazza Mazzini per affrontare poi le curve tortuose della salita della Madonnina. Dal punto di Corso Vittorio Emanuele dove ha inizio la Pedamentina si raggiungono Mater Dei, la Sanità e le Fontanelle in pochi minuti, attraversando i vicoli del quartiere Avvocata. Anche la Sanità, come i quartieri Spagnoli, e ancor più i Miracoli e i Vergini, strade di palazzi antichissimi dalle scale incrociate che portano fino a Capodimonte, è piena di botteghe, piccoli ristoranti e pasticcieri. Ma il luogo più incredibile è il Cimitero delle Fontanelle che insieme al monumentale di Poggioreale raccoglie gli scheletri di Napoli. Nonostante la maestosità del luogo, le Fontanelle sono sempre chiuse. Ma talvolta riprendendo luce, raccontano le leggende fantastiche di amori e trasformazioni. Le teche condotte dalle devote per amore e per adottare l’anima di un defunto sembrano prevedere il culto recente di lottare per una grazia.
Oppure si può approfittare della chiusura della funicolare per avviarsi da Portalba lungo via Tribunali. Il percorso della prima e della seconda parte della via racchiude non poche sorprese. Il teatro Instabile è nascosto nei pressi del Vico Fico Purgatorio ad Arco. La chiesetta sconsacrata lì di fronte viene usata per le prove dei tanti teatranti napoletani. La Sala del Lazzaretto nasconde passaggi interni di antichi palazzi.
Fino poi a scendere al quartiere San Lorenzo lungo via Carbonara fermandosi per le scalinate della chiesa di San Giovanni, o al quartiere San Carlo all’Arena lungo via Foria, incontrando il teatro San Ferdinando, incastrato in un palazzo, fino a piazza Carlo III, dove si trova l’immenso Real Albergo dei Poveri completamente abbandonato. Più in giù verso Porta Capuana la nuova facciata della Chiesa di Santa Caterina a Formiello, nei pressi di un grande Lanificio abbandonato, tiene chiuse le urla di una vecchia che ogni giorno si aggira per le cappelle nella luce tenue del sole ostacolata dai colori sbiaditi delle pitture.
 
Uno degli abitanti della Pedamentina, oltrepassata via Pignasecca, la Scala di Montesanto e la Salita della Madonnina, continua la sua camminata percorrendo i pochi metri che portano verso il quartiere San Ferdinando. Sembra dimenticare l’immagine fantastica del mare circondato dal coro di voci e di strade per cambiare espressione e rendere il suo volto monotono e pronto alla minuscola stanza senza colori e ai consueti rimproveri del suo capo. E’ lì che, povero malcapitato, si reca ogni giorno scendendo per la Pedamentina dal 61 perché lavora nel Palazzo della Regione, al quale si accede da via Raffaele De Cesare, una traversa di Via Santa Lucia. Quel palazzo è circondato da bar, tra i quali il Santa Lucia. Qui un vecchio signore dagli occhi inespressivi, le occhiaie gonfie e cadenti, le guance da giovane mastino, porge una bollente tazzina di caffè e un bicchiere d’acqua.
Alle spalle del Palazzo, partono le stradine di Pizzofalcone fino a Monte di Dio e agli ascensori. Ma le poche volte che l’abitante del 61 si incammina per quelle strade per respirare un pò d’aria, deve fare ritorno in breve tempo al suo ufficio. Oppure, quando si incammina dall’altro lato verso la Darsena Acton, deve solo accontentarsi di guardare i traghetti diretti a Capri e Procida, o più in là quasi nel porto, a Ischia. Ricorda i vicoli dei centri di quelle isole che gli sembrano propaggini nel mare di Napoli e delle sue strade. Altre volte, con l’incarico di portare documenti negli uffici di Corso Meridionale, segue il percorso della linea del bus 1 e si incammina per il quartiere Mercato. Raccoglie gli inviti dei pescivendoli e delle prostitute agli angoli della strada, per attraversare poi piazza Garibaldi.
Ogni giorno, conquistato il lento ascensore, giunge al quinto piano e con una piccola chiave apre la porta numero tre del corridoio di destra che conduce alla vicepresidenza. Trova in quella stanza faldoni e carte. Sembra che il tempo ridimensioni la burocrazia, ma non è così. Rispunta ancora dagli armadi, sotto i tavoli, per ogni richiesta, per ogni appalto truccato, per ogni short list pubblicata, tra i cento timbri apposti sulle buste paga. Perché per pagare un solo stipendio di quell’esercito di napoletani servono 10, 100, 1000 uffici fasulli come questo. Quella stanza, prima vuota, è stata riempita gradualmente con tre scrivanie, tre sedie, due telefoni e due computer. Così da un buco abbandonato hanno creato un posto di lavoro per quattro persone e per decine di altre che ci girano intorno. Tutto ciò con uno spontaneismo ed un’improvvisazione che tolgono il respiro al giovane, apprensivo e deferente capo e rendono la vita impossibile ai suoi sottoposti.
Al tavolo delle riunioni si incontrano quasi ogni settimana uomini e donne, giovani e belli. Almeno tre generazioni di solide raccomandazioni, riposizionamenti, ritorni a galla: il bel direttore nuotatore, la giovane bionda e intelligente, la madre di famiglia spaesata, il verbaliere, lo statistico, il prendi borse, la grafica punkabbestia, l’esperto in comunicazione romano, il parla a vanvera, la segretaria muta, la dirigente incompetente per materia, ma ottima conoscitrice del diritto amministrativo e delle sue omertose consuetudini. Siedono a questo tavolo anche la donna di esperienza, il consigliere diplomatico e il capo del cerimoniale. La prima, espatriata francese, propone pacate parole alle orecchie di un gruppo di convenuti impegnati a discutere solo di facezie. Il secondo, parlo con tutti, barba bianca, pancia sporgente, gambe secchissime, tiene nel suo ufficio alle spalle, e quindi ben visibile all’interlocutore, un calendario di donne nude. Il terzo, alto, calvo, dal volto da fantino e la voce minuta e profonda da eunuco, ricorda i vari passaggi per ottenere doni e gagliardetti. Al tavolo siedono poi almeno due o tre mal raccomandati ogni volta diversi, i cui contratti sono scaduti, mai pagati o pagati per non lavorare. Nessuno aderisce completamente al suo ruolo, ma sono tutti pronti ad adeguarsi alle mansioni di un altro.
Questo gruppo, ad eccezione dell’autorità diplomatica e del cerimoniere, che chissà a quali pasti hanno diritto, occupa a pranzo i ristoranti del lungomare o di Castel dell’Ovo. Le richieste di ciascuno inebetiscono i giovani camerieri dei bassi che tutto il giorno salgono e scendono freneticamente lungo le scale del Palazzo. Portano vassoi pieni di centinaia di caffè, li versano, li porgono, chiedono il resto, lo cercano meccanicamente. Conducono giornate tutte uguali, partendo dai bar del quartiere. La fatica spegne di ora in ora il loro sguardo. Portano piatti e merende, preparano panini, tagliano pomodori, salgono, salutano, non fanno domande, lasciano la roba e vanno via sorridendo per uno spicciolo. Sono gli unici sguardi complici di quel Palazzo. Sono gli unici accenti veri nell’ascensore. Sono le sole parole vive in quelle mura abituate a raccogliere le aspirazioni di tristi impiegati.
L’abitante del 61, deve avere le orecchie tappate e gli occhi chiusi quando avvicinandosi al portone del Palazzo, si imbatte nelle quotidiane manifestazioni di giovani disperati, precari e disoccupati, che gonfiano Via Santa Lucia fino a via Partenope. Non importa cosa dicano, cosa chiedano, chi insultino, pur avendo le stesse qualità degli altri o forse maggiori, non possono sedere al tavolo del Palazzo e non sanno cosa non perdono. Capita che un brindisi del presidente, che ricorda il lavoro da lui svolto a tutti i dipendenti e gli amministratori, copra le urla di quella gente.
Quando l’abitante del 61 entra nella sua stanza, iniziano le censure e gli sbalzi di umore del suo capo. Ogni minuto ha da ridire su qualcosa, esprime un giudizio o compie un movimento di scatto, da nevrotico incallito. Questi cerca una specie di espansione dei tempi del lavoro, alterna volubili complimenti a invettive, non dà alcuna importanza ai contenuti se non alle formalità esteriori. Attende i tempi di politici e dirigenti, i loro umori, le loro volontà incoscienti e tratta male i sottoposti per rifarsi dei soprusi. A stento rivolge la parola e passa decine di minuti al telefono a ridere di questo e quello con ogni falso interlocutore compiaciuto. Distribuisce tensione, insicurezza, angoscia a tutti, un profondo sospetto. E inizia le sue sentenze più inopportune con sono sincero.
Sembra trovare nell’abitante del 61 sicurezza e stabilità, lo elogia per un istante, lo denigra un momento dopo, fa battute sul suo aspetto e i suoi vestiti, i suoi gusti. Ascolta i suoi consigli ma lo zittisce in pubblico, gli chiede sforzi di autocontrollo disumani scaricando su di lui responsabilità e rendendone ogni istante faticoso, opprimente e pericoloso. Pensa di conoscerlo senza sapere nulla di lui. Lo chiama in continuazione in ufficio perché la sua presenza è necessaria e lo rimprovera per ogni minuto di ritardo, come fossero ore. Qualche volta, soprattutto d’estate, l’abitante del 61, costretto a terminare il suo lavoro per ultimo, riconquista il suo sguardo sulla città dirigendosi verso Posillipo, lungo la discesa di Via Marechiaro o della Gaiola. Ma più spesso, l’abitante del 61 esce dal portone, saluta gli uscieri, che finalmente lo riconoscono, attraversa Piazza Plebiscito, ammira l’installazione di Jan Fabre[1], cammina senza guardare, sovrappensiero lungo via Roma o Toledo. Giunge a Piazza Carità, si avvia lungo la Pigna Secca, compra pane ed un biglietto per la funicolare. Prende la funicolare di Montesanto per una sola fermata. Guarda Napoli.
Sale con l’ascensore, incontra una donna. Attraversa il cancello, chiede ai ragazzi di poter passare. Arriva al 61 e guarda di nuovo la città. E’ stanco e sudato. Dimentica il tavolo delle riunioni, non risponde all’ennesima telefonata del suo capo. Ricorda la guerra del Capodanno in ogni minuscolo punto di quella distesa di case. Pensa alle voci dei mille vicoli, agli occhi dei cento uomini che incontra ogni giorno e alla desolazione di quella vita. Copre i sussulti di frasi che non riesce a cancellare mentre Ingrid Caven canta.
 
Giuseppe Acconcia
[1] Questa installazione composta da cinque figure si trovava in Piazza Plebiscito dal dicembre 2008.
 
Cover image: Naples, courtesy Danilo Capasso and N.EST

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