Anita, insegnante e scrittrice

La mia storia in dieci righe? Nasco nel 1972 a Torre del Greco, sotto il Vesuvio. Nel 1990 termino il Liceo classico e pubblico il mio primo articolo su un piccolo ma combattivo “foglio” locale. Qualche anno più tardi, mi laureo in Lettere all’Università di Napoli con un tesi su Ribera, relatore il caravaggista Vincenzo Pacelli. Nel frattempo e dopo (con qualche interruzione), scrivo per quotidiani, periodici, testate d’arte on line e cartacee, mostre. Nel 2006 mi annunciano che una cattedra nella scuola pubblica mi sta aspettando. Intanto continuo a scrivere. Tre anni dopo, prendo la via del Nord. Scuola, famiglia, distanze… Scrivo poco, non scrivo più. O quasi. Adesso ho un blog che necessita di maggiore attenzione, soprattutto da parte mia, e qualche collaborazione occasionale. Altro di me non saprei narrare…


Cosa hai dato alle città che hai attraversato e cosa pensi che esse abbiano messo nella tua vita?

Napoli: amore, passione, un po’ di notorietà, ma anche delusione e rabbia. Soprattutto incontri e amicizie. Questo mi ha dato la città in cui è iniziata la mia vita. In cambio, anche se è stucchevole dirlo, ho donato parole e sviluppato sentimenti viscerali.
Ravenna: un anno ascetico. Cosa le ho dato? Beh, ho qualche ex alunno amico su Facebook!
Torre del Greco: legame problematico. Solo negli ultimi tempi mi sto faticosamente riconciliando con il mio “dormitorio”, teatro di ricordi non sempre piacevoli e perlopiù asfittici. Se aggiungiamo la fobia catastrofista da vulcano incombente e una certa grettezza provinciale mista a senso di inferiorità, viene fuori una bella zavorra! I miei “lasciti” si limitano ai pochi affetti privati.
Con Casale Monferrato non è stato semplice prendere confidenza. Si è presa buona parte delle mie energie, anche più di quante ne potessi spendere: oltre alla scuola, un’associazione culturale, una candidatura al consiglio comunale, un evento espositivo. Insomma, ci sono voluti quasi cinque anni, ma sento che è il posto su cui sto facendo i maggiori investimenti.


Cosa fa Casale e la sua società per te, in particolare?

Istintivamente, mi verrebbe da rispondere un rotondo e gioioso “niente”. In realtà, a pensarci bene, trasferirmi mi ha spronata verso l’autonomia e mi ha consentito piccole libertà. Guido l’automobile, vado in bici, indosso gioielli, giro da sola a tarda sera. Non so se è merito di Casale, o se sono stata io a decidere di fare qui cose che avrei potuto permettermi anche al Sud.
In quanto alla società casalese, non riesco neppure ad inquadrarla: sarebbe banale lamentare il razzismo ancora latente o il cliché locale dell’“esageruma nen”, così come è retorico affermare di aver conosciuto persone amabili. Nel complesso, i miei rapporti sono pochi, un po’ per la mia natura schiva e pigra, che di fronte alla relazioni si fa prendere da una sorta di ansia prestazionale, un po’ per la tipologia dei contatti che si allacciano soprattutto in ambito scolastico. Se sei del Sud e sei accoppiato con uno del Nord, come nel mio caso, è difficile che i colleghi settentrionali ti invitino a uscire, forse perché danno per scontato il tuo “inserimento”; per lo stesso motivo, è altrettanto difficile che lo facciano quelli meridionali, prevalentemente precari e single. Insomma, non so se conduco un’esistenza da reclusa perché sono un’outsider contemplativa, oppure perché sono antipatica e “asocievole”.


Mi racconti un momento bello che hai vissuto, nel passato e di recente?

La maggior parte dei momenti belli della mia vita sono legati all’arte o alla musica. Uno risale ad oltre vent’anni fa, durante una delle prime edizioni di “Maggio dei Monumenti”. Napoli, domenica pomeriggio. Gironzolo con due amici per il quartiere Sanità. Canzoni dai bassi, voci dai balconi, odore di fritto. Pace assoluta. Cielo azzurrissimo. Arriviamo alla chiesa di Santa Maria. Prima di entrare, una mano mi copre gli occhi. Quando li riapro, vedo l’altare maggiore in cima alla spettacolare scala a tenaglia. Punto.
In tempi più recenti invece ho costruito, o ho colto, momenti significativi, portatori di entusiasmo, soddisfazione o emozioni, ma senza dolcezza o nostalgia. La bellezza stava da un’altra parte.


Che posto continua ad avere la scrittura nella tua vita?

In questo momento la scrittura per me è come la sindrome dell’arto fantasma. La dimensione periferica in cui abito e le scarse relazioni non mi consentono quelle opportunità culturali ed umane essenziali per mettermi alla tastiera. Per anni, lavorando soprattutto con un quotidiano, ho vissuto con l’adrenalina del pezzo da consegnare subito: ogni volta che aprivo il “Roma” e vedevo la mia firma mi emozionavo! Quando, di colpo, mi sono fermata, ho realizzato che il mondo dell’arte (soprattutto contemporanea) aveva smesso di divertirmi o di stimolarmi. Non lo capivo più. Provavo disagio e noia. Le visite alle gallerie private si sono diradate, sia per problemi logistici, sia perché avendo interrotto la collaborazione con alcune testate non ero più motivata o “obbligata” a scrivere. Se non hai una scadenza, dei lettori, un progetto da condividere, un riconoscimento economico perché sbattersi?
Poi sono subentrati la frustrazione, il senso di colpa, il vittimismo: scrivi, mi dicevo, scrivi porca miseria, se non ci riesci più è perché in fondo tutto ‘sto talento non ce l’hai, non ce l’avevi manco prima. Stavo dilapidando un patrimonio, anni a denti stretti per colmare lacune, cercare di erodere pregiudizi. Da balbuziente, mi sono sempre trovata (o messa) in condizione di fare il doppio della fatica, e avevo affidato alla scrittura una funzione compensativa, per esprimere le parole che si inceppano nella gola, per affermare il mio valore al di là di questo impedimento da barzelletta. Troppo, perché non esplodesse la crisi. Vedevo in me un’altra persona, e quella persona non mi piaceva. Prima le dita correvano dietro ai pensieri, e all’improvviso era tutto azzerato. La mia testa era una muro di mattoni, le parole non venivano più a trovarmi. Le persone intorno a me sembravano non rendersi conto di questa sofferenza: mi esortavano a scrivere, ed io stavo peggio perché mi sentivo investita da aspettative che non potevo soddisfare. Se non fossi riuscita a corrispondere all’immagine che mi ero plasmata con tanti sacrifici, non mi avrebbero più accettata? Non mi avrebbero voluto più bene?

Mi sono torturata… e tuttora non sono riuscita a venirne a capo.


Come insegnante, che incontri fai abitualmente? E come scrittrice sotto coperta? 

Come insegnante, incontro soprattutto gli alunni. Il che, sebbene spesso ti svuoti, è la parte più interessante del mestiere. A piccole dosi i colleghi: lungi dal denigrare, ma avete idea di cosa sia un’aula insegnanti nelle cosiddette “ore buche”? Avete mai partecipato ad un consiglio di classe o ad una riunione di dipartimento? Poi i bidelli, veri “registi” della nostra quotidianità: da quella che porta lo spray da casa per pulire il tavolone della sala docenti a quello che vende abusivamente la frutta nei bagni. Ovviamente i genitori, ma adesso da un lato le acrobazie diplomatiche e il linguaggio formulare appaiono un logoro canovaccio, dall’altro alcuni colloqui sono avvilenti, nel bene e nel male. La scuola è un microcosmo molto utile ed istruttivo, a patto di elaborarlo col giusto distacco, altrimenti il burnout è in agguato.
E veniamo al “sotto coperta”. Ho sempre preferito tenere separati i miei ambiti lavorativi, illudendomi così di proteggere il mio mondo interiore, il mio rifugio spirituale. Può sembrare contraddittorio, ma pur esponendomi (specie sul web) cerco di avere come scrittrice un’“altra vita” nascosta. Gli incontri in questo senso ormai sono pochissimi. Mi dispiace in particolar modo per le interviste con gli artisti: alcune sono state coinvolgenti come appuntamenti d’amore, altre hanno generato rapporti di amicizia e stima. Un altro contatto che mi manca è quello con gli assistenti di galleria, il cui ruolo andrebbe riconosciuto con più dignità e generosità.


Un talento che hai, uno che ti manca

Posso sperare di avere ancora il talento delle parole? Tra i molti che mancano, vorrei voce educata e battuta pronta.


La musica che ascolti in questo momento ed il libro che stai leggendo

In questo momento nessun ascolto: quando scrivo ho bisogno di silenzio. Ho orecchie piuttosto “ricettive”, ma prevalentemente le nutro di classica e opera.
Raramente leggo un solo libro alla volta: sparpagliati in casa ora ci sono “La vita segreta del Medioevo” di Elena Percivaldi, “Siviero contro Hitler” di Luca Scarlini, “Piccola storia della fotografia” di Walter Benjamin e un volume di foto realizzate in Africa da Ryszard Kapuscinski.
 

Le tue passioni culinarie e quello che ti piace bere?

Ho un rapporto bipolare col cibo. Sono insofferente ai ristoranti troppo raffinati, così come alle trattorie finto-caserecce. Ammiro gli still life delle ricette ma trovo inopportuno fotografarsi nel piatto. Proverei imbarazzo nell’ostentare l’atto intimo e naturale del mangiare come status symbol o esperienza estetica: questa ossessione per il “food” e il “cooking” mi rievoca piuttosto tempi di miseria, in cui almeno si aveva la lucidità di non assimilare un petto di pollo a un’opera d’arte. Non seguo le guide e, generalmente, non mi entusiasma andar fuori a pranzo o a cena. Però amo la convivialità, mi piace invitare, attardarmi in chiacchiere a tavola e assaggiare nuovi manicaretti, specie se qualcuno li ha preparati per me. Tra le mie molte passioni gastronomiche spiccano la pizza di scarole, i crocché di patate, gli gnocchi, la farinata genovese, il baccalà mantecato. Inoltre sono golosissima: se devo scegliere tra la vetrina di una pasticceria e quella di una boutique… beh, vince la prima! Per il bere, neppure il “trapianto” in Piemonte ha iniziato il mio palato ai vini. Apprezzo un buon bicchiere, soprattutto in compagnia, ma oltre all’acqua del rubinetto la “mia” bibita resta la cedrata, che mi ricorda le domeniche d’infanzia sul Vesuvio e gli aperitivi con le amiche…


I tuoi prossimi progetti?

Innanzitutto sopravvivere alla burocrazia del MIUR. Imparare a leggere la musica e a respirare. E poi…

 

Cosa hai imparato dalla vita fin qui?

Non ho imparato niente. Non so neppure se la vita abbia cercato di insegnarmi qualcosa. Ho empiricamente raccattato istruzioni qua e là, ma ho difese troppo alte per essere una buona allieva. Più che inseguire il cambiamento, mi ci forzo per disciplina interiore. Quest’anno comunque ho imparato a nuotare e la lezione esistenziale che ne ho tratto è grosso modo questa: a chi è abituato a stare in cattedra non fa male ritrovarsi dall’altra parte; coraggio! affidati e buttati; a volte, riuscire a toccare il fondo è una conquista.

 

Il ritratto di Anita Pepe è di Daniele Podda

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