Henry, Venezia

 

La tua storia – almeno negli elementi essenziali

 

Nasco a Padova, ci siamo trasferiti qui quando ero ancora un ragazzino delle medie: la mia famiglia è di origine trentina. Sono stato fortunato ad avere i genitori che ho avuto, erano due persone – padre medico, madre insegnante di storia dell’arte al Liceo Artistico e all’Accademia – molto attente e culturalmente impegnate. Ci hanno educato – me ed i miei fratelli – ai valori della curiosità intellettuale.

Mia madre era un simbolo che trasmetteva la gioia di sapere, come ho recentemente ricordato al suo funerale laico. Una certa attitudine al lavoro intellettuale, allo studio e alla ricerca, che mi riconosco, viene da lì.

 

La scelta di studiare architettura è stata un po’ legata ad interessi personali maturati nel tempo. La grande opportunità rappresentata da Venezia per me è stata la scuola di architettura che vi ho trovato e che negli anni di quando ero studente forse era nei suoi più importanti. V’insegnavano grandi professori – filosofi, storici, architetti: un luogo d’eccellenza mondiale.

Vicino alla scuola di Venezia è poi nata una scuola di urbanistica, la prima in Italia, che aveva sede in una bellissima villa settecentesca, Villa Franchetti a Preganziol (Treviso), che all’epoca la Provincia di Treviso mise a disposizione (erano gli anni di Bernini; il direttore della scuola era un socialista della vecchia guardia).

Quando questa scuola nasce, diviene subito un unicum in Italia: per la prima volta si insegnava ecologia, studio del territorio, insieme a sociologia, antropologia ma anche storia della fotografia…Un’esperienza unica anche perché alla scuola di Preganziol sono passati molti grandi maestri.

 

 

Il tuo maestro preferito – o i tuoi preferiti?

 

Ne ho avuti due: quando sono stato studente a e poi mi sono laureato, Bernardo Secchi (scomparso a Milano nel 2014). Lui era incaricato a Venezia, si occupava di squilibri regionali all’epoca. Un grande accademico, ma anche un grande insegnante. Le sue lezioni me le ricordo ancora tutte.

Secchi può essere comparato a un altro grande insegnante dell’epoca, Tafuri, (Manfredo, scomparso a Venezia nel 1994). Sono quei docenti che a lezione ti tengono inchiodato per due ore, esci stanchissimo ma ne vale la pena. La tesi con lui me la ricordo ancora.

 

L’altro mio grande maestro con cui ho lavorato è stato Giorgio Lombardi, architetto e docente allo Iuav di Venezia. E’ con Giorgio Lombardi, purtroppo scomparso, che ho iniziato il mio percorso attuale di ricerche e studi e con lui ci siamo ‘incrociati’ grazie anche alla comune passione per la storia dell’arte (arte antica soprattutto).

E’ con Lombardi che mi concentro sui centri storici e sulla salvaguardia del patrimonio, in campo urbanistico è l’unica cosa che l’Italia ha esportato nel mondo e che ancora ci viene riconosciuta. Sui piani regolatori gli inglesi ed i francesi sono bravissimi, ma quando parliamo di ‘intervento sull’esistente’ ed in particolare sul patrimonio storico, siamo noi i migliori.

 

Da allora questo è stato il mio settore, in parallelo facevo sia il ricercatore all’università che il consulente per organismi internazionali (Nazioni Unite, World Bank, Unione Europea) con un fuoco importante in America Latina, tutto merito di Giorgio Lombardi che mi ci ha portato da ‘piccolino’ (nel senso che mi ero appena laureato, ero si fa per dire un bebè!). Tutto iniziò con un corso di formazione per restauratori (aperto per la prima volta non solo al restauro dei beni mobili ma anche al patrimonio della città storica) a Cuzco (Perù) dove hanno chiamato gli italiani ad insegnare, con un programma dell’UNDP (l’United Nation Development Programme è un’agenzia specializzata dell’ONU). Da lì inizia nella mia vita un lungo rapporto con l’America Latina che tuttora continua.

 

 

Quello che per loro è emozionale nel paesaggio forse differisce da quello che è per noi.

E sono convinta che le strategie di sviluppo, soprattutto commerciale, nelle grandi città di quei paesi hanno gradi di ‘usurpazione’ di territorio diversi dai nostri…Oppure succede la stessa cosa?

 

E’ abbastanza diverso.

Noi allora portavamo una cosa che colpiva molto e che suona più o meno così’ “proteggiamo il patrimonio inteso non solo come i monumenti, quale ad esempio una chiesa barocca, ma anche il tessuto minore, fatto di mattone crudo – ed alcune funzioni della città storica quale la politica residenziale in favore degli abitanti originari”.

 

 

Cosa ne pensi degli architetti che si occupano di masterplan, dalla scala piccola (risistemare un’area mercatale, che ha un cuore importante, come fece Miralles per Santa Caterina) o da scale maggiori (Koolhaas, ad esempio con un quartiere di Cagliari, Sant’Elia). Possono competere con i saperi di un urbanista in questo campo?

 

Competere non lo so: sono due scale troppo diverse. Dovrebbero ovviamente convivere.

 

Non c’è dubbio che alcuni personaggi dotati di grandi personalità, come quelli che tu hai citato, hanno saputo rispondere bene ad una domanda quando però – e questo spesso non si sa – dietro c’è un’amministrazione che ha preparato un ‘terreno’.

Santa Caterina: dietro c’è, appunto, un grande lavoro dell’amministrazione di Barcellona che ha fatto sì che quella potesse essere un’operazione di successo.

 

Un architetto sensibile è in grado di interpretare bene una domanda, ed alcuni sono anche stati in grado di dare una risposta interessante.

Rem Koolhaas, qui ora, è molto popolare (e c’è molta polemica anche) per il Fondaco.

Io penso che non fosse sbagliato trasformarlo. Non condivido, cioè, la posizione di ‘intoccabilità’ essendo un edificio totalmente trasformato e svuotato della sua originalità. Se farci un centro commerciale, come poi è avvenuto, sia la risposta giusta questo non lo so…

 

Io credo che Koolhaas sia un provocatore ma è anche un architetto che ha posto quesiti interessanti sulla conservazione, soprattutto un paio di biennali fa in una sua mostra. Certamente ci sono valori patrimoniali importanti che hanno a che fare con la storia e l’autorialità ma esiste anche un fattore diverso importante nella preservation, quello identitario e condiviso. Quindi un edificio può diventare ‘patrimonio’ anche se non è ‘antico’ ma lo è solo perché è un simbolo per la comunità che lo ospita.

 

Anche noi lavoriamo su questi temi nella nostra scuola, in particolare una bravissima giovane docente (Sara Marini) insieme a Pippo Ciorra (MAXXI) che hanno promosso un nuovo tema di ricerca, Re-cycle Italy: applicano il concetto di riciclo all’architettura e all’urbanistica. Provando a semplificare, loro introducono il fatto che oggetti di queste discipline (a maggior ragione in tempi come questi, dove la crisi favorisce l’assunto di questa ricerca) possano essere trasformati radicalmente rispetto all’uso, anche per economizzare il territorio. Da questo punto di vista possiamo citare il patrimonio delle caserme ma anche, ad esempio, delle chiese – che a Venezia sono tante, molte sono anche chiuse.

 

Occorre essere molto liberi, dobbiamo immaginare di poter trasformare gli oggetti (compatibilmente con alcuni valori). Ho visto ad esempio un recente progetto proprio di OMA, a Mosca, che ha trasformato un garage di autobus in una galleria d’arte contemporanea (parla di quello di Dasha Zhukhova). Perché no?

 

La lezione migliore per me resta quella di Tadao Ando che è riuscito a trasformare Punta della Dogana in un modo esemplare. Valorizzando gli unici elementi di quello che era un magazzino. Ci ha anche aperto delle viste, delle finestre termali, che prima erano di dominio esclusivo dei magazzinieri quando facevano il loro lavoro e della cui vista ora godiamo tutti.

 

 

Il waterfront di alcune città portuali e altri luoghi, soprattutto di lavoro, si sono trasformati proprio per la crisi. E, quando scompaiono i mestieri tradizionali per cui erano stati creati (spesso non sono cancellati, sono solo delocalizzati) quei luoghi sovente vengono privatizzati. Oggi sono soprattutto centri commerciali.

Penso a Liverpool, ad esempio. Cambia così l’interazione con la città, cambia finanche la ragione per cui si va in centro. Sempre a Liverpool, ad esempio, si sono inventati una biennale d’arte soprattutto destinata agli spazi pubblici, sia per mitigare questo fenomeno sia per trovare altre ragioni di successo della città – tramontata l’economia ‘portuale’.

Quanto l’arte ispira l’urbanista, sia in senso soggettivo che come gruppo di lavoro?

 

Ha un potere enorme ed ispira moltissimo. Ho visto e rivisto la grande capacità dell’arte come anticipatrice. Per la sensibilità dell’artista, si è capaci di anticipare un problema o una visione, alle volte anche dei modi di essere. Bisognerebbe poterla usare un po’ di più: ha anche il potere di svelare i luoghi, guarda Christo con il lago di Iseo, chi ci andava al lago d’Iseo?

Ad esempio, con Re-cycle abbiamo mostrato cosa fanno gli artisti con il rifiuto, con il waste.

 

Noi abbiamo un deficit culturale profondo – anche noi qui a Venezia, dove abbiamo la Biennale – di attenzione al contemporaneo e della sua valorizzazione.

Qui da noi la storia pesa in negativo, con la convinzione che siamo figli del Rinascimento si perdono occasioni di capire la forza propulsiva del contemporaneo.

Alla nostra università abbiamo la fortuna di avere Antoni Muntadas tra i docenti di arte visiva, che ci regala le sue visioni e l’applicazione di creatività proprio sullo spazio urbano.

 

 

Lavora soprattutto con il linguaggio che in arte contemporanea è una delle frontiere più difficili

 

Lui è un piccolo faro per noi.

 

 

L’urbanistica fa spesso il conto con la politica e mi viene in mente qualcosa di gelido come la matita rossa di Stalin od altri calcoli. Il rapporto con le cubature, i piani regolatori….E’ un ruolo scientifico o sociale?

 

E’ un ruolo socio-culturale, molto delicato. Fino agli anni 80, almeno in questo paese ma non solo, l’urbanista si confrontava con un mondo della politica che faceva da mediatore con le istanze sociali (e anche da loro interprete). Sindaci e assessori rappresentavano un’istanza espressa con il voto democratico. Quindi, fatto salvo il tecnico urbanista che era chiamato a metterle in pratica, la domanda veniva dalla società.

Adesso l’urbanista dialoga spesso direttamente con le realtà sociali. Ed occupandosi del cambiamento dell’esistente, un elemento forte del suo baricentro è l’interesse generale cioè la ‘città pubblica’.

 

 

Processi di partecipazione con la realtà sociale da istituzionalizzare?

Mi viene in mente il lavoro di artisti e carpentieri inglesi, gli Assemble Studio (hanno vinto anche il Turner Prize ma lavorano nello spazio urbano, raccolgono istanze di cittadini e ne fanno performance progettuali che, per la loro natura, producono reali cambiamenti, spesso ai piani più politici). Ed, ancora, il lavoro di Atelier Van Lieshout, che ha creato tempo fa una repubblica temporanea con tanto di moneta e costituzione dentro il Porto di Rotterdam che resiste alcuni mesi prima di essere sgomberata. Quando l’arte crea una destinazione d’uso…

 

E’ quello su cui ci concentriamo nella nostra ricerca, e che chiamiamo ‘destinazione provvisoria’. Le associazioni ‘spontanee’ che occupano luoghi abbandonati e propongono usi diversi sono d’esempio – anche qui ci sono specifiche azioni nelle isole sottoutilizzate o deprivate, interessante un gruppo di lavoro a San Nicoletto (Lido).

Noi le osserviamo con molta attenzione perché offrono soluzioni che spesso l’urbanista non vede, ma più in generale danno molto valore a qualcosa di molto sottovalutato, il progetto. Alla forza potenziale dell’invenzione progettuale. Che dona capacità interpretativa e dona risposte a situazioni apparentemente inconciliabili.

 

Riguardo alla trasformabilità del mondo contemporaneo, ti cito due provvedimenti che, pur nella freddezza del linguaggio burocratico con cui sono redatti, sono molto interessanti: la Convenzione Europea del Paesaggio che ha operato cambiamenti radicali (introducendo il concetto di ‘paesaggio come territorio’ e ‘paesaggio quotidiano’). E la Raccomandazione 2011 dell’Unesco sul paesaggio urbano storico, su cui peraltro lavoro alla cattedra UNESCO allo IUAV.

 

 

Il libro che leggi ora, tra i vari sul tuo desk?

 

Ho come immaginerai una serie di testi di lavoro, tra cui anche quelli di cui ti parlavo prima. Ma anche testi di fisica: credo molto nell’incrocio di saperi, mai come oggi.

 

 

Cosa ti piace mangiare e cosa bere?

 

Ti rispondo adesso, domani cambierei risposta. Cucinare il risotto alla lombardo-veneta (ad esempio di radicchio o di funghi), mi diverte molto. Mangiare, oltre al risotto, volentieri anche la carne e sono molto goloso di uova, cucinate in tutte le maniere possibili.

 

 

Cosa ti da Venezia e cosa pensi di dare a lei (non posso scindere il cittadino dall’urbanista, ovviamente)

 

Mi da ancora, nonostante tutto, una dimensione fisica ed urbana di grande rilassatezza e gradevolezza estetica. E’ possibile, e a volte necessario, lasciarla almeno temporalmente, anche se ogni volta constato, dopo i miei viaggi, che a Venezia è bellissimo tornare. Le prime due settimane, soprattutto, è una meraviglia.

 

Non so cosa dono, ho provato a dare tanto e tendenzialmente sono un po’ pessimista. Credo difficile riuscire a dare delle cose, poi in qualche modo lo faccio lo stesso, ma…I cambiamenti intervenuti sono tali che puoi dar quello che vuoi ma non sei più efficace. Certo, volentieri si danno consigli, opinioni, ma la città non risponde più.

E’ che la realtà politica attuale deve rispondere agli interessi elettivi di una pochezza disarmante. Negli anni ‘60 e ‘70 in città si aveva una classe di professionisti e di intellettuali che aveva delle idee, e la classe politica li rifletteva…Adesso la classe politica risponde ad interessi davvero bassi. L’unica soluzione sarebbe occuparla con i marines, Venezia. La vedo molto difficile. Lascerei il compito di dare a chi ha più energie.

 

 

Un talento che pensi di avere e uno che vorresti avere

 

Forse la mia capacità migliore è l’interazione, l’attenzione ed il dialogo, l’inclusività. Anche con chi è molto diverso da me. Faccio presto a capire le logiche di pensiero culturale molto diverso da noi, non a caso lavoro molto a livello internazionale.

Talento che vorrei? Beh, lasciamo perdere! Sarei voluto essere un baritono…

 

 

Cosa hai imparato sin qui?

 

Che devo combattere una mia tendenza a fidarmi solo di me stesso. Però sto imparando che così facendo perdo realtà potenziali che non riuscivo ad attivare e quindi devo smetterla!

 

Venezia aiuta purtroppo molto a fidarsi solo di se stessi…

 

 

Ho conosciuto Henry per caso, seduta accanto a lui ad un convegno illuminante di LSE, Urban Age, nel luglio 2016 a Venezia in occasione della Biennale di Architettura. Io ci andavo soprattutto per ascoltare le risposte dei politici presenti e non sapevo che ruolo avesse lui.

 

Quest’intervista è stata raccolta mesi dopo, è una lunga chiacchierata leggera su temi importanti in un affollato bar veneziano nel quartiere dove entrambi abitiamo, spiegati anche a chi come me non è della materia.

Enrico è un urbanista ed è docente dello IUAV; dal 1978 collabora con le maggiori istituzioni ed organizzazioni internazionali. E dal 2006 è prorettore dell’università dove insegna e si occupa dei rapporti internazionali.

 

A proposito di Re-Cycle Italy: http://www.quodlibet.it/libro/9788874628940

 

2 risposte a “Henry, Venezia”

  1. Bruno Zampa

    Aggiungerei tra le qualità ,oltre a quelle professionali, la grande disponibilità verso gli altri e la caparbietà per raggiungere i risultati .

    Grazie

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    • admin

      Grazie! Io aggiungerei una scrittura potentissima nel raccontare l’anima degli altri!

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