La mela di Newton (da)

“Passeggiare certe mattine in campagna, quando la luce è calva come un sasso di fiume, non è soltanto un esercizio di stile; la mia potenza la mia insufficienza di uomo, la misuro col metro dei colori d’autunno. E la luce che varia. L’altezza afflitta del cipresso. La scapigliatura di erbe lunghe, ad esempio: hanno un loro colore savio ma ingenuo, quasi il saio di un frate, sempre si more pare che dica, e poi gli aceri, i roveri, le acacie irsute, la gentilezza slava delle betulle, i gelsi tarchiati, guardie confinarie tra un campo e l’altro di mais; e sono gialli fastosi, ocra discreti, e l’arancio s’incendia di rosso, il rosso si finge amaranto, l’araldica rara che rende più nobile il verde. Per quanti amaranti c’è un nome, per quanti toni di verde, per quanti celesti c’è un nome? Qualche volta mi sforzo e serro le palpebre come di miope o navigante o pittore, ma basta una brezza e dispone un giallo dove prima era verde, con la rètina e, peggio, la penna che in superficie non coglie che crespe, mentre dietro quel muro impassibile sta tutta una peripezia d’elettrone. Tuttavia esiste, quel nome, ed è un atomo anteriore alle cose e ogni colore non colto si chiama distanza, ogni sguardo che coglie si chiama poesia. È questa l’ebrietudine d’origine, è questo, mi dico, il corso dei poeti, sbarbicare le parole dal silenzio, farle intatte – rosa di Paracelso -, sentirle pesanti sul palmo, come le teste dei re, dentro il cerchio concluso di monete d’oro o di rame.

[…]

Verrà l’inverno, la più metafisica delle stagioni. La più propizia all’immaginazione e alle amicizie. La terra si farà bruna, i rami si faranno neri, le erbe e le stoppie, tutto un mondo piegherà le vertebre al sonno. Soltanto il vento taglierà le nuvole. Nevicherà, se farà abbastanza freddo: allora la terra e il cielo si confonderanno, la neve cancellerà siepi e muretti, i confini delle villette qua attorno. Dentro gli appartamenti c’è già chi si affiderà alle paraboliche per essere ancora più solo, io mi affiderò alle parole per raffigurare il suono della neve. Fra tutte, sceglierò le lettere più morbide – la lettera a, la lettera e, la lettera o, la elle la emme la enne – e le parole che ne siano più ricche; cercherò di disporle con cura, in giaciture che ricordino le sinuosità distese di una donna in penombra, poi, scostando le tende della finestra più ampia, confronterò il bianco del foglio col bianco dell’inverno e forse, nel farlo, mi commuoverò, perché commuoversi non significa piangere, ma muoversi insieme alle cose, averne il medesimo ritmo, il medesimo passo, il medesimo polso; forse lascerò lo sguardo andare nella neve, lo lascerò libero nel bianco, con la disposizione dell’amante che si lasci annientare dalle carezze di chi è amato, un piede, un nuovo piede nella neve e l’orma si farà ombra e tutto, per un istante, sarà dimenticato, alle mie spalle il primo – l’imo – lampo di carbonio che ci precipitò alla terra, nudi”.

 

Pierluigi Cappello (Italia, 1967 – 2017), in La mela di Newton, Ignazio M. Gallino Editore, Milano 1998, pp. 37-38, 43-44. Riletto da Vico Acitillo – Poetry Wave, 2009

 

Per acquistare il libro: http://www.ebay.it/itm/LA-MELA-DI-NEWTON-Racconti-Gallino-Ed-1998-Covacich-Cappello-Bongiorno-Franzosi-/281121609490

 

Copertina: Walton Ford, The Island, 2009 (dettaglio), tempera, gouache, matita ed inchiostro su carta, fogli d’albero, Crystal Bridges Museum of American Art, Bentonville, Arkansas: , esposto al Museum of Old and Modern Art (MONA) nella mostra On the Origin of Art fino al 17 Aprile, 2017 (foto di Diana Marrone)

Per saperne di più: https://mona.net.au/museum/exhibitions/on-the-origin-of-art

Lascia un commento