La Pedamentina (Parte Prima)

Le scale che da Corso Vittorio Emanuele conducono alla Certosa di San Martino sono sempre piene d’erba. L’erba cresce tra le pietre e si arrampica sulle mura delle case. E’ ostacolata solo dai vetri infranti delle bottiglie lanciate dagli amanti seduti a guardare nel vuoto. Scendendo verso il quartiere Motecalvario, l’immagine della città è sempre più chiara. Finchè, lo sguardo, oltrepassato il confine coperto dalle mura dell’Istituto tecnico commerciale “A.Serra”, incontra prima il mare e poi tutto il Golfo di Napoli. Una volta, un uomo e una donna vestita di bianco scendevano le scale. Lui rivolgendosi al vento urlava puttanella, puttanella te la fai con quel vecchio, puttanella.

A metà strada, quando le mura di contenimento della scalinata si fanno basse, un’arcata bianca porta ad un piccolo piazzale, chiuso da una rete di ferro che copre metà dei quartieri antichi di Napoli e dei nuovi grattacieli del Centro direzionale. Lì si trova il numero 61. Più in basso, dopo alcune scale e una ripida discesa, un piccolo cancello laterale conduce ad un palazzo, nei pressi di un ascensore. Nonostante separati, i due condomini si scontrano costantemente. L’oggetto del contendere è il cancello che permetterebbe agli abitanti del 61 di usare l’ascensore e raggiungere casa evitando la salita della Madonnina. Questa strada unisce il palazzo alla Pedamentina, permettendo anche alle macchine di salire. Gli abitanti del 61 non pagano per la manutenzione dell’ascensore, ma contribuiscono alle spese condominiali del palazzone in basso. Lo scontro si manifesta in due modi o l’ascensore viene fermato a comando o la serratura del cancello grande viene bloccata con lo scotch, impedendo il passaggio verso l’ascensore. Gli abitanti del 61 sono costretti così a salire lungo la salita della Madonnina. E se sono in macchina, rischiano spesso di rimanere bloccati tra gli stretti tornanti a causa di altre macchine e di motorini in sosta. Le poche automobili che riescono a completare la salita si incontrano sul piazzale adiacente all’arco di ingresso della Pedamentina. E lo spazio lì è talmente risicato che, la presenza anche di calce e materiale di operai, impedisce ogni manovra. Come se non bastasse, almeno tre macchine incendiate, o semplicemente a pezzi e abbandonate, ingombrano il cammino e non facilitano di certo la sosta. Sono forse il segno del passaggio di piccoli boss che abitano nelle case più in alto oppure del contrabbando nascosto della pizzeria, sempre vuota, di Corso Vittorio Emanuele.

I ragazzini in motorino che scendono a tentoni da San Martino, per facilitare il passaggio verso la salita della Madonnina, hanno messo una larga doga di legno sugli scalini, che costringe i pedoni a manovre complicate. Questi ragazzi trascorrono pomeriggi interi a discutere, giocare e amoreggiare dietro la grata di ferro del 61. Chi era quello con tua madre? Tu un padre non lo tieni!, dice un giovane dalla pelle scura ad un bambino seduto vicino a lui sul primo scalino. Era mio padre, risponde l’altro senza timore. I ragazzi ripetono questi discorsi e continui scherzi in dialetto napoletano. Ovviamente gli abitanti del 61 conoscono benissimo queste storie perchè sono costretti a districarsi tra i bambini seduti sulle scale a chiacchierare, per passare attraverso il portone arancione di ingresso, o a sentire le loro voci altissime entrare dalle finestre.

I canti dei neomelodici dei bassi salgono dalle radio degli inquilini dei primi piani. I fuochi d’artificio, da tanti punti della città, si odono ad intermittenza di giorno e di notte. Questa è Napoli vista dal muro della Pedamentina.

L’altare della Madonna è illuminato da piccole lampadine. Arriva dal basso il suono assordante ma smorzato delle navi del porto. Lo sguardo si sofferma sui colori, talvolta spenti, talaltra sgargianti, delle case del centro e un odore di umido, penetrato nelle pietre delle mura e sulle pareti coperte da buganville. I cani di passaggio lungo le scale, lasciando cacche tra l’erba, mischiano odori ad odori. Televisioni, letti, mobili, travi di legno e rifiuti vari vengono abbandonati a lato dei cinque cassonetti posti nei pressi dell’arcata e, spesso dimenticati, occupano costantemente il passaggio.

Il 61 è un rifugio. Lo stretto ingresso al primo piano porta in una piccola cucina con un tavolo, un pupazzo esce da una tazza, piccoli giochi si incontrano sulle mensole piene di verdure e suppellettili, le foto di bambini sono mantenute da due calamite al frigorifero, la Stoliknaja e la Slivovize sono appoggiate sul tavolo. Seguono tre stanze, nella prima la parete è coperta da una libreria, nella seconda, ci sono dischi, disegni, marionette, pupi e maschere. La statua del dio indiano Ganesh è sistemata nell’angolo. La terza stanza si affaccia lateralmente sul Golfo di Napoli verso la collina di Capodimonte. Una piccola porta conduce in una stanzetta minuscola piena di libri e nelle seguenti due stanze, ancora piene di libri e di cassette, un letto dietro agli scaffali grandi di legno e un altro nella stanza in fondo. Quest’ultima si affaccia completamente sul Vesuvio e su una curva di scalinate della Pedamentina. I passi fanno sobbalzare le travi di legno smuovendo le finestre. L’aria umida e fredda ha lo spirito della campagna e cancella la città che però di tanto in tanto riappare dalle finestre.

Basta poi aggiungere che per conquistare questo paradiso in altezza è necessaria una salita con tutti gli ostacoli di cui ho parlato per rendere ancora più meritata quella pace. Anzi, da molto prima le gambe iniziano a lamentarsi. Quando da Piazza Carità si vuole raggiungere la Pedamentina è necessario attraversare Via Pigna Secca con le botteghe di salumeria, i friggitori, le bancarelle, l’ospedale dei Pellegrini, i bar, i verdurai venuti apposta dalle terre a vendere la frutta, il formaggio di Agerola, i venditori di pesce nascosti nei vicoli o schierati lungo la strada, le taverne tra cui don Antonio che offrono pasta e fagioli, polpette al sugo e pesce fritto a prezzi bassi. I quartieri spagnoli sono pieni di taverne come questa: la Mattonella, il Vinacciuolo, Nennella, i Nardones. Non solo, le donne dei bassi, si piazzano nei vicoli o su piazza Baracche e vendono pizze fritte con strutto e pomodori per pochi spiccioli. Più giù, nei bassi dei travestiti, si intravedono, per la luce fioca, dei letti mezzi vuoti dove erano sedute donne magre e truccate.

Superata Via Pigna Secca ed il pane a legna dei vecchi fornai all’altezza di Pietruccio il salumiere, si incontra la fermata della funicolare Montesanto-Morghen. La salumeria di Pietruccio è un punto di riferimento perchè sembra ferma con gli stessi prodotti, liquori e pubblicità vecchi di decenni, vacili di plastica pieni di pani, immagini di santi e vergini e una piccola televisione, scaffali di alluminio sbilenchi. E poi c’è Pietruccio, alto e assente, con delle mani da gigante che potrebbero spingere su lungo la scalinata.

La funicolare spacca i palazzi di Montecalvario e ferma al Corso Vittorio Emanuele, poi prosegue fino al Vomero, punto dove anche le altre funicolari di Napoli si incontrano. Il servizio di questo treno parte alle sette di mattina e termina alle dieci di sera. L’attesa tra un treno e l’altro è di venti minuti e il prezzo del biglietto è di 1,10 euro. Vi faccio notare che i dieci centesimi sono un aumento imposto nel 2008 per risolvere il problema dei rifiuti che non pochi incendi ha causato in Via Asor Rosa e in Via Carbonara[1].

Il violino dei bulgari suona nei vagoni della funicolare e accompagna la salita. Il guaio è tra le 22 e le 7 di mattina. In queste nove ore, la salita diventa faticosissima perchè bisogna costeggiare la funicolare e poi salire dieci rampe di scale piccole che portano al primo stazionamento della scalinata di Montesanto. Da lì partono altre quattro rampe da dieci scale larghe che incrociandosi conducono finalmente al Corso Vittorio Emanuele. Ora questa di Montesanto è un’introduzione alla Pedamentina. Non è l’unica. Più avanti, per le macchine, c’è Vico Trinità delle Monache e subito dopo ci sono altre due piccole scalinate che dal quartiere Montecalvario portano alla base della Pedamentina: le Scale di San Pasquale, le cui mura laterali sono di colore rosso e che partono nei pressi del piccolo teatro Galleria Toledo, e la Via Santa Maria Francesca, che passando tra gli sguardi di signore intente a cucinare o stendere i panni, partono da via Santa Maria Ognibene, nei pressi del teatro Nuovo. A queste vanno aggiunte un’infinità di scale e rampe, ballatoi e scaloni che fanno di Napoli una città di scale. L’immagine dai tetti ai piedi della scalinata di San Pasquale è molto più diretta, dà le vertigini, nonostante sia più in basso della Pedamentina, sulle colline che squarciano la città e i palazzi fino a toccare il mare e ad entrare nelle case e sui balconi. Come la Pedamentina, la scalinata di Montesanto è coperta d’erba, di cartoni di barboni che vi soggiornano e di siringhe.

Alla vista della città il fiatone lentamente si placa, per ricomparire subito dopo aver attraversato il Corso Vittorio Emanuele lungo la salita della Madonnina e all’arrivo all’ascensore. L’ascensore, fiancheggiato da un grande altare della Madonna, sempre illuminato da lumini e che dà il nome alla salita, è semi-pubblico. Nessuno possiede le chiavi delle scale, che pure esistono, e perciò tutti sono costretti a pagare i venti centesimi per i tre piani che l’ascensore permette di risalire agevolmente.

Questo luogo è frequentato da personaggi vari tra cui teatranti che inscenano istantanee sceneggiate e operai che bloccano l’ingresso con pezzi da lavoro. Gli incontri nello spazio angusto sono frequenti ed inquietanti. Si misurano dalla gentilezza con cui le porte dell’ascensore vengono chiuse e aperte e la solerzia con cui ci si offre di pagare i venti centesimi per la salita. Una donna, nota per avarizia, non mostra mai una moneta finchè l’obbligato compagno di viaggio non abbia già manifestato l’intenzione di pagare il pedaggio. (…)

[1] Aggiungo con molto risentimento che una tassa di 70 centesimi si paga anche per usufruire della tangenziale di Napoli, l’unica a pagamento in Italia. Si tratta di un’imposta del 1981 per la ricostruzione dopo il terremoto in Irpinia i cui container sono ancora in vista in vari centri dell’entroterra.

 

Giuseppe Acconcia

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