Labirinto

Giú dal Ponte sul Bosforo

Suona la sveglia. Un suono simile alla campana che annuncia l’ora del pasto allo stanco equipaggio di un mercantile. Ma chi mai pensa alle navi mercantili? Quel suono proviene dall’appartamento accanto, o forse da un sogno. Dal sogno di qualcuno che dorme nell’appartamento accanto. Il vento entra dalla porta del balcone e riempie l’interno. La tenda leggera si agita. Qualunque sia la stagione, l’aria frizzante del mattino dà un senso di freschezza. Mentre l’orlo della tenda si contorce verso il letto, anche il suono della sveglia cresce di volume. Con gli occhi ancora chiusi, Boratin si allunga cercando di spegnerla. La mano si aggira sul comodino. Si ferma. Aspetta, poi ci riprova. Non riuscendo a trovarla, apre gli occhi. Fuori sta albeggiando. Gli oggetti della stanza si distinguono appena, immersi nel buio. Che posto è? Non somiglia a una stanza d’ospedale. La coperta, il balcone, la finestra sono diversi. Sí, questo non è un ospedale. Sono arrivato a casa, credo. Fuori dalla finestra si vede il cielo. Sul bordo del comodino, i flaconi di medicinali. Aiutano sí a dormire, le medicine, ma non bastano a placare l’emicrania. I suoi occhi si richiudono. La mano cade sul cuscino. Mentre frusciano le foglie di un albero vicino al balcone, il fresco avvolge le sue braccia nude. 

Boratin si risveglia quando si è fatto giorno e il vento si è calmato. La tenda è tranquilla. Un rombo viene da fuori, da quartieri lontani, crescendo e moltiplicandosi fin qui. Si guarda intorno, cercando di capire se si è già svegliato in questo stesso posto. La stanza è ampia. Il colore avorio delle pareti è semplice, ma il rivestimento in acero dell’armadio di fronte è fin troppo chiaro. Sarebbe stato meglio un tono piú scuro. Chi l’ha scelto, questo armadio, sono stato io? Boratin dubita del suo buon gusto. La sera prima, quando l’avevano portato in questa casa che non conosceva, aveva sperato che al risveglio, l’indomani, la casa gli avrebbe offerto dei ricordi. La porta del balcone, l’armadio e il comò gli rammentano una camera d’albergo vista per la prima volta. Riconosce soltanto i flaconi di medicinali. Si mette dritto a sedere sul bordo del letto. Si irrigidisce per il dolore al petto. Si sfila la canottiera e va con lo sguardo alle costole. Per vederle meglio si dirige verso lo specchio. Una delle costole destre è rotta. La tocca con la mano. Sente il bruciore sotto la pelle. Era stato fortunato, cosí gli avevano detto. Una sola frattura. Nessun altro danno al corpo; ma loro non considerano la memoria perduta come una parte del corpo. Alza gli occhi e si guarda in viso. Quel viso conosciuto una settimana prima. Cosí nuovo. Salve, sconosciuto, si dice. Il viso nello specchio, è ovvio dal labiale, risponde con le stesse parole. Come ieri sera. Quando ieri sera era tornato a casa, intorno c’era il silenzio. Aveva girato a passo lento per le stanze, come se stesse visitando un museo, era passato scivolando tra i soprammobili e le chitarre. Aveva preso i farmaci dalla busta dell’ospedale. Aveva bevuto due bicchieri d’acqua. Si era guardato il viso allo specchio. Si era tolto la camicia, i pantaloni e i calzini. Si era steso sul letto, in attesa, senza muoversi, chiudendo gli occhi. Aveva contato, inspirando ed espirando. Non aveva dimenticato i numeri. Quarantuno, quarantadue, quarantatré. Poi era crollato.

In ospedale gli avevano detto di stare calmo. Ha perso la memoria, non abbia paura, con il tempo la riacquisterà, gli avevano detto. Per prima cosa si erano occupati della costola, poi si erano incuriositi su cosa fosse accaduto a quell’uomo che a partire da una costola rotta e da una memoria persa cercava di ricreare una persona intera. 

È curioso, aveva detto alla dottoressa, lei si interessa a me piú di quanto non faccia io stesso. Questo è il mio lavoro, gli aveva risposto lei. La perdita della memoria può apparire terrificante, Boratin Bey, ma la sua situazione è relativamente buona. Se non altro conosciamo il suo indirizzo e la sua identità dalle carte nel portafogli. Se pure lei non lo ricorda, anche queste sono parti di lei, proprio come quel tatuaggio che si è fatto fare sulla schiena non sa piú dove né perché. Lei possiede delle cose a cui ora non è in grado di dare un senso, ma che con il tempo riuscirà a ricomporre. Qualunque sia stata la sua storia passata, voleva sfuggire a un lato di questo mondo che forse le pesava troppo. Ha osato farlo, ci è persino riuscito. Il suo scopo l’ha raggiunto, ma per vie insperate. Giú dal Ponte sul Bosforo… Da qui in avanti potrà tracciare meglio il suo percorso. Dottoressa, oltre alle medicine lei somministra ai suoi pazienti anche speranze? Allora mi spieghi questo: la mia mente non ospita una singola informazione su me stesso, ma è piena di nozioni sul resto. Conosco i nomi dei filosofi dell’antichità, i colori delle squadre di calcio, le parole del primo astronauta sceso sulla Luna. Nel mio portafogli non vedo neanche un singolo indizio su di me, non ricordo nemmeno il mio nome. Quel nome me l’avete detto voi e io l’ho accettato. 

Nel volto allo specchio cerco un segno che mi tranquillizzi, un’espressione che mi indichi la strada. Accosto l’orecchio al viso sullo specchio, lo poso dov’è la sua bocca. Liscio. Freddo. Sento ruggire un’onda che è stata intrappolata qui molte ere fa. Desideri oscuri. L’odore di umido di un magazzino. Mi avvicino al tempo che in passato ho abitato, mentre ora ne sono caduto fuori. Sto per tentare la discesa nella mia memoria attraverso un’altra scala, accendendo la lampada azzurra sul magazzino del mio passato, ma il suono di un campanello mi fa irrigidire. Lo squillo proviene dall’interno o da fuori? Somiglia al suono dell’orologio che ha rintoccato per tutta la notte. Seguendolo attraverso il corridoio. Passo accanto a un dipinto tetro. All’angolo opposto del salotto vedo un telefono rosso e nero. Mi fermo e penso a cosa dovrei fare. Prima ancora di prendere una decisione il telefono smette di suonare. Ha una cornetta vecchio stile, non ci sono tasti che si premono, le cifre si selezionano girando una rotella. È decorato con particolari dorati, come quelli che piacciono agli anziani. Il telefono riprende a suonare. Stavolta è piú insistente. Se rispondo, una voce

sconosciuta mi chiederà come sto. Non sentirà il bisogno di presentarsi. Crederà che l’abbia riconosciuta. Di fronte al mio silenzio ripeterà la domanda. E dopo un istante di titubanza comincerà a parlare al mio posto. Parlerà delle cose che dobbiamo fare. Mi ricorderà di una riunione o di un invito a mangiare insieme. Si metterà a blaterare delle sfortune della vita. Dopo una breve dimostrazione di pietà inizierà a rimproverarmi con un tono addolorato.

Snocciolerà tutte le disgrazie del mondo, e per ognuna nominerà una vittima, quindi, senza darmi l’occasione di riagganciare, mi addosserà le maledizioni delle vittime. E davanti al mio silenzio salterà da un tema all’altro. Quando sarà il turno dei favori che le ho fatto, la voce si placherà, ma dirà di non riuscire a comprendere perché mi sia ridotto in questo stato. Io ne approfitterò per prendere la parola. Dirò che nemmeno io sono in grado di capire come mai mi sia ridotto cosí. Chiederò che mi faccia la gentilezza di raccontarmi tutti i segreti che sa sul mio conto. Avendo perso la memoria, ho anche perso tanti anni di vita da essere a zero. Chiederò compassione, come se si trattasse di un guardiano che tiene in mano il mio passato. Selezionerò le parole migliori. Alla voce all’altro capo del filo parlerò di una storia rimasta incastrata in un angolo della mia mente. Tanto è remoto il passato, altrettanto è distante il futuro. Non riconosco le direzioni in cui si muovono le stelle. Sento avvicinarsi a tutta velocità la valanga che si fonde ai rumori del traffico, una valanga che si contorce e si avvolge su se stessa, alle spalle delle torri e dei grattacieli. Il cuore mi dice di affrettarmi. Vado a tirare la tenda. La chiudo bene, in modo che non lasci filtrare la minima luce. Lo squillo del telefono si arresta. 

Burhan Sönmez (capitolo primo) da Labirinto, Nottetempo Edizioni, 2019 (traduzione di Nicola Verderame)

© Burhan Sönmez, 2018 © Kalem Agency
© 2019 nottetempo srl  © Walkabout agency

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