Mark Ravenhill, creatore di teatro

Un terrazzo meraviglioso, piena estate, Venezia, i gabbiani cantano a squarciagola e l’aria è così cristallina, i pensieri così rapidi, resi elettrici ed eccitati dal terso del blu che circonda le teste.

Il sole abbacina gli occhi, lui siede con un cappello davvero pop sulla testa, sorseggiando un caffè shakerato con me. Entrambi senza latte e senza zucchero.

Ad intervalli regolari, enormi ed oscene navi da crociera tagliano la nostra vista sull’Isola della Giudecca, oscurando il sole, la vista, l’immaginazione, riempiendo di musica-spazzatura le orecchie, visto l’alto volume dei loro stereo.

Lui, qui per la prima volta, ne è sorpreso.

Le sue mani – piccole, curate, bianche – sono entrambe macchiate di un inchiostro assai rosso, come se fossero ferite e sanguinassero. Adora vedere la reazione di quelli che gli stringono la mano, subito dopo divertito dice loro che si tratta di inchiostro, ‘nessun problema’.

Lui è Mark Ravenhill, uno degli scrittori europei di maggior successo, che non si è seduto sulla fortuna del suo primo pezzo, di teatro, Shopping and Fucking uno dei più tradotti e rappresentati di quel periodo.

Sì, è uno dei pilastri del nuovo teatro inglese.

Prima volta a Venezia, ha diretto un workshop di sceneggiatura durante la locale Biennale di Teatro.

 

La tua storia in poche righe, specialmente parlando della tua infanzia e della tua adolescenza, gli anni della formazione.

Sono nato nel sud dell’Inghilterra, non lontano da Londra. Ho sempre creato, da che mi ricordi, piccoli pezzi di teatro in casa, piccole performance; nelle prime recitava anche mio fratello più giovane. Sì, quindi, il teatro è sempre stato qualcosa che volevo fare.

Cominciai non suddividendo le cose da fare nel solito modo (scrivere, dirigere, recitare); io facevo teatro e basta. E tuttora penso di me come di uno che fa teatro piuttosto di uno scrittore puro. Quando ero un ragazzo, pensavo, in tanti modi, che la musica rock e pop fossero la cosa più meravigliosa di tutte e speravo di diventare un musicista, un artista da copertina; devo dire che quel genere di energia presente in quel tipo di musica è tuttora parte di me.

All’università scelsi Letteratura inglese e teatro. Quindi, sì, ho un background letterario in qualche modo e traccio sempre un dialogo con gli autori classici per via della mia formazione ma anche per i miei interessi. Ma penso anche che quelle iniziali influenze della musica pop si siano fuse con la letteratura classica.

 

Che tipo di musica? Qualcosa alla Pet Shop Boys?

Ascoltavo e ascolto di tutto. Anche con la musica non faccio differenze tra quella cool e non. Mi piace la musica e basta. Quella cool e quella alternativa, i gruppi, e sì anche i Pet Shop Boys.

 

I tuoi genitori vi portavano spesso a teatro?

Non tanto spesso, amavano il teatro ma non ne vedevamo tantissimo. E’ stato così fino ai 21 anni, quando finita l’università mi sono trasferito a Londra. E’ lì che ne ho visto tantissimo, Londra ha centinaia di teatri.

Quanto è stato difficile per te raggiungere l’obiettivo di diventare uno sceneggiatore famoso nel tuo paese? Se magari conosci la situazione della tua professione in altri paesi, riesci a fare un paragone?

Appena iniziato a lavorare in teatro, volevo essere un regista e ho anche diretto due o tre pezzi ma ero sempre più interessato al modo in cui erano scritti, li trovavo distanti da come volevo fossero scritti e mi sarebbe piaciuto chiedere di riscriverli nel modo a me più congeniale. A quel punto pensai che forse dovevo scrivere qualcosa direttamente. Questo accadeva nel 1995, circa 20 anni fa. Cercavo una commedia che raccontasse esattamente i miei tempi, come era vivere a Londra in quegli anni, che catturasse il vero spirito delle cose. Pensai semplicemente di provarci. Sicuramente era un buon punto di inizio non avere un’opera su quel soggetto a farmi iniziare a scrivere. Era necessario che lo facessi io.

 

A quel punto fu difficile o facile trovare la tua strada aperta come sceneggiatore?

Fui molto fortunato perché il primo pezzo che scrissi, Shopping and Fucking, è stato tradotto in molte lingue e anche rappresentato in molti paesi. Quindi, a quel punto, fu semplice fare lo scrittore di teatro a tempo pieno. Cosa che continua ancora oggi. Sono sicuro che sia davvero un inizio fortunato scrivere in inglese perché è una lingua internazionale, facile da leggere e tradurre e soprattutto facile da scovare. Ma devi anche pensare ad un’altra cosa, pratica ed importante, del teatro in Inghilterra. Ogni opera prodotta da noi viene pubblicata. E’ facile quindi per le persone leggerla. Ad esempio un grande paese come gli Stati Uniti, con una grande popolazione e quindi un mercato molto più grande per i libri, non lavora nello stesso modo. Gli editori inglesi hanno pensato che tutto sommato fosse facile, e relativamente poco costoso, pubblicare una sceneggiatura e noi abbiamo un sacco di studenti di teatro ed altre persone che comprano. Ormai sono trent’anni che questo accade, anche per le commedie di piccoli teatri: vengono stampate.

Quindi, quando scrivi una sceneggiatura, diventa molto facile trovarla. E questo aiuta in termini pratici a fare sì che anche in altri paesi possano averla. Sicuramente, l’inglese è un vantaggio ma non è che noi abbiamo una popolazione così più numerosa che in altri paesi europei. Abbiamo solo sviluppato questo tipo di editoria.

 


E’ la tua prima volta a Venezia, ma non è la tua prima volta a dirigere un workshop…

Ne ho tenuti tanti, è vero, con autori differenti ed in situazioni le più diverse. Sono stato anche in molte città italiane, ma mai a Venezia! Sono stato molto felice di ricevere l’invito di Alex (Rigola, il direttore della Biennale Teatro, ndr). Ma quando ho visto che l’invito era per Venezia, mi sono detto che dovevo andare, assolutamente! Anche se il workshop sarebbe stato un disastro, sarei stato a Venezia ed era abbastanza!

Hai deciso da solo di lavorare su Ibsen? Hai avuto carta bianca da Rigola?

Sì. Leggevo, solo sei mesi fa, un saggio molto famoso sul suono della risata (Il riso. Saggio sul significato del comico, Henry Bergson, ndr) in cui mi ero già imbattuto nel corso degli anni ma che non avevo letto prima di allora. Sì, certo, non leggo molti saggi. Quando l’ho preso in mano ho visto che era breve, fantastico! L’ho trovato molto affascinante, quindi quando mi ha invitato pensavo che era perfetto proprio per i termini dell’invito. Tutto quello che mi interessava fare era in quel libro. Perfetto per lavorare su quello che non sempre le persone associano al genere della commedia. Poi ho scelto la meno comica tra le opere di Ibsen, I Fantasmi, e ho anche sentito che questo sceneggiatore norvegese aveva preso moltissimo dal genere del Boulevard francese (un genere di commedia del XXVIII secolo che veniva fatto per la classe agiata di Parigi, spesso in teatri privati, ndr): persone che arrivano alla porta di altri, personaggi borghesi, trame… C’è un filone, un elemento che egli prende da questo tipo di commedia teatrale. L’ho trovato un assai interessante…

…canovaccio?

Sì!

 

Con questo tentativo su Ibsen, hai anche provato a fare arte-terapia mentre scrivevate o è solo una mia impressione…

No, non penso. Certo, noi creatori di teatro ad un certo livello siamo sempre molto ossessivi nel dire che facciamo sceneggiatura professionale e non terapia di gruppo. Ma penso, e ne sono felice, che ci sia anche un elemento di terapia quando scrivi, dirigi o reciti. Diventando adulto, ho realizzato che è davvero stupido pretendere che non c’è alcun aspetto di terapia in questo. Ognuno porta con sé memorie, paure, speranze nel posto dove lavora. Quindi c’è qualche parallelo con la terapia.

 


Che tipo di audience hai nel workshop, hai scelto tu i tuoi studenti?

No, lo ha fatto la Biennale per me perché molte domande di partecipazione erano in italiano. Quindi ha pensato Alex a formare il gruppo. Ho chiesto che ci fossero almeno il 50% di donne, spesso la sceneggiatura è un affare troppo maschile. Anche per il mio piacere: non mi piace un’intera classe di uomini che parla! E mi piace la vita reale: sono stato ad una scuola normale fatta di metà ragazzi e metà ragazze! In particolare penso che in alcune parti del mondo, e forse nei paesi latini, ci siano queste grandi figure maschili che si considerano i maestri e scelgono altri uomini di cui circondarsi. Non mi sento a mio agio in mezzo a cose troppo patriarcali.

 

Altri artisti (come Neil Labute) che hanno lavorato in altri workshop mi hanno detto che la parte più difficile con giovani drammaturghi è la revisione del lavoro. Sovente si innamorano della prima versione e non sanno che la gioia (o la perversione) della scrittura è l’editing. Sei d’accordo?

Sì. Spesso ho visto con giovani scrittori che, quando il lavoro viene consegnato, c’è una sorta di paura nel cambiarlo, nel criticarlo: è come se il lavoro sparisse. Ho notato che ci sono capacità che dividono e qualificano le persone. Chi è capace di scrivere un dramma fantastico grazie solo all’ispirazione e chi (sono quelli che scriveranno molti pezzi nella loro vita) ha spesso la dote di rivedere, dare altra forma, criticare il proprio lavoro, fino a impiegare un mese per cinque pagine…


Come combini l’attitudine, spesso veloce e furiosa, dei social network, con il tuo corpo totale di creatore di teatro, che è probabilmente più lento e riflessivo? Come partecipi ai social? Curi personalmente i tuoi account?

Molti scrittori amano i social perché la scrittura è un’attività molto solitaria. E’ un modo per chiacchierare. Se lavori in un ufficio o in una fabbrica, incontri le persone a pranzo o alla macchinetta del caffè. Lo scrittore no perché lavora da solo, per mesi. Esattamente come andare alla macchinetta del caffè e fare due chiacchiere con il collega, lo scrittore va su Facebook e racconta. E’ appunto un po’ di gossip…


Saresti capace di condividere qualcosa di più che una chiacchiera superficiale rispetto alla tua routine, qualcosa di più intrigante, personale, o come dire, più pesante? Anche questioni politiche?

Non tanto, non direi. E poi, penso che lo slacktivism sia davvero pericoloso. La politica vera è ancora qualcosa che non si fa sui social, ma tra persone, nella vita vera. Non penso sia un atto politico ‘postare’ ogni giorno cosa pensi su Gaza. Io cerco di non fare dichiarazioni politiche.

 

Qual è stato l’incontro più inaspettato che hai avuto recentemente, sia nella tua vita lavorativa che in quella personale?

Non penso di aver avuto incontri inaspettati, magari sono uno troppo controllato. Mi piace però incontrare nuove persone e FB aiuta. Qualcuno un giorno ‘posta’ un link di un giovanissimo musicista pop inglese, si chiama Baby Tap, quindi divento amico su FB (non l’ho mai visto di persona): ha appena finito l’università e lavora nella sua stanza producendo i suoi video. Un giorno Baby Tap posta un artista drag americano che si chiama Christeene. Mi è piaciuta subito la canzone di Christeene – la prima che ho ascoltato, si chiamava African Mayonnaise. La mostro quindi ad un mio amico produttore di teatro che è riuscito a portare in tour Christeene in Inghilterra ed ora suona ad Edimburgo e ho avuto modo di conoscerla. Quindi, come è successo: qualcuno posta su Baby Tap, lui riposta e quindi il mio amico la vede…I social sono davvero una buona fonte di nuovi contatti con le persone ma questo è un buon esempio di me che fa succedere qualcosa! Adoro fare nuove connessioni e mettere insieme le persone, quelle che normalmente non sono connesse…

 

Sei innamorato adesso, Mark? Sia se si sia se no, pensi ci sia una forma di amore da fiction che sia in grado di durare per sempre, in certi modi?

Sì, sono innamorato e ho fatto un matrimonio civile con il mio partner a Londra nel 2009; adesso lui lavora in Austria (a Bregenz, dove l’Austria incontra l’Italia). Proprio perché siamo in due nazioni differenti, occorre lavorarci su, come curare le piante. Lavorare ogni momento per rinnovare il sentimento, innamorarsi della stessa persona molte volte, ogni giorno. Sì, spesso, innamorarsi ogni giorno. Questo tipo di sentimento è differente dagli amori di quando si era più giovani, quando era tutto sempre super woow ma durava tre settimane o tre mesi al massimo….Preferisco il tipo di amore dove devi lavorarci di più.

 

Cosa fa la società per te e cosa fai tu per la società?

Ciò che veramente è importante degli esseri umani è che siamo sociali, ma che dobbiamo fare società ogni giorno, in pratica è la stessa metafora che ho usato per l’amore. Certo potremmo e dovremmo parlare anche di argomenti più grandi, magari politici, ma trovo ci siano cose più rilevanti nel livello quotidiano: come ci trattiamo come lavoriamo insieme, insomma come creiamo genuine situazioni sociali.

Una delle cose più belle del workshop veneziano è stato proprio formare piccoli gruppi di lavoro, vederli creare in lingue differenti, trovare i modi di comunicare le proprie idee agli altri, incoraggiarsi… Non puoi avere un’immagine della società fissa, data. Ogni giorno ognuno di noi fa la società.

 

Cosa fai tu per la società come persona?

Non sono sicuro. Nel senso, conosco un sacco di persone molto più coinvolte di me in attività politiche o caritatevoli o chissà cosa…Il mio particolare talento è scrivere questi pezzi: molto spesso è difficile considerarli socialmente utili o rilevanti. Qualche volta puoi pensare ad essi in termini di qualcosa di esclusivo, tuttavia contribuiscono….


Tu dai la benzina alle anime, penso

Sarebbe fantastico! Lo spero!

 

Quali libri e quale musica hai qui con te a Venezia?

Ne parlavo con Alex (Rigola, ndr) proprio l’altra sera: ho letto da pochissimo una bella novella di George Bataille, autore francese. La traduzione in inglese è The Blue of Noon (il titolo originale è Le Blue du Ciel, ndr). Ambientato tra Londra, Parigi e Barcelona, è stato scritto nel 1935, ha circa 75 pagine e parla dell’Europa che va verso il fascismo senza saperlo e senza che le persone lo capiscano, questo è il senso del libro. L’autore non ne parla mai in termini politici. L’ho trovato al contempo irritante, potentissimo e terrificante: un libro fantastico!

La musica che ascolto ora qui? Un paio d’anni fa scrissi un nuovo adattamento dell’Incoronazione di Poppea, di Monteverdi. Ora la canto tutto il tempo qui, nella mia testa.

 

Un talento che ti manca?

Tutto quanto relativo alla musica, credo. La amo e ora lavoro molto per il teatro musicale e per l’opera. Ma non sono in grado di scrivere musica, quindi qualsiasi cosa del ramo (che so, suonare il piano, cantare) sarebbe fantastico da iniziare!


Cosa hai imparato sin qui dalla vita?

Ah ah ah (ride)! Che la tua esperienza personale non sarà mai unica. E’ qualcosa di assai difficile da capire quando sei giovane. Pensi sempre che quel che ti succede sia una prima volta per il genere umano, che tu sei unico ma invece è il contrario, in tanti passano quello che passi tu. Quindi direi che ho imparato a moderare il mio ego. Ho impiegato tanto tempo a imparare. Certamente è stata una parte importante della mia crescita e sospetto che accada anche nelle vite di molte altre persone.


I tuoi prossimi progetti e i tuoi prossimi workshop se ne hai fissati già altri?

Nell’immediato sto scrivendo una grande opera per un compositore norvegese, Rolf Wallin. Adesso, una volta che torno a Londra, devo riscrivere qualcosa sul secondo atto. Il debutto è fissato per il mese di aprile 2017 all’Opera House di Oslo. E’ davvero una grande produzione, 16 nel coro, 17 nell’orchestra… un sacco di personaggi: un grande pezzo. Il libretto condenserà tutto. Wallin ha avuto un’idea iniziale di lavoro, poi ci siamo dedicati a lunghe conversazioni che hanno portato ad un percorso più concreto. Ho quindi iniziato la storia e lui mi ha dato tanti feedback per riscrivere, riscrivere…Una volta che abbiamo il libretto in una forma che sia pronta e su cui iniziare a lavorare, lui inizia a scrivere la musica…

 

Il British Council ha fatto qualcosa di utile per il successo del tuo primo lavoro, Shopping and Fucking o la censura non ha aiutato?

Non ho avuto alcun problema con la censura ed il British Council mi ha sostenuto sin dall’inizio. Penso che a quei tempi furono tutto sommato molto rapidi a realizzare il grande interesse attorno ai giovani autori di teatro inglese e attorno agli artisti visivi ed ai musicisti di quegli anni, era la metà degli anni Novanta. Decisero anche che era il genere d’immagine che volevano del paese all’estero. Certo, potevano anche decidere di continuare a promuovere cose come Shakespeare, ma videro l’energia che veniva dalle generazioni dei giovani e scommisero su quello. Buona reazione.

Sei mai riuscito a seguire qualche autore o regista italiano?

E’ molto tempo che non riesco. Sono stato molto fortunato in passato a vedere qualche Strehler (circa 25 anni fa) e una delle cose più belle che ho visto è stato un Dario Fo dirigere alcune commedie francesi (due Molière e altri). E’ riuscito a mischiare ottimo clowning, commedia fisica e grandi prospettive socio-politiche: lo vidi a Parigi, incredibile (in Inghilterra non avremmo avuto la possibilità di vedere il regista Fo o di conoscerlo come scrittore).

 

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