Massimo Gaudioso, sceneggiatore, Roma

 

La tua vita in poche righe, in particolare il perché di una laurea in economia alla luce della tua direzione dell’oggi.

Sono stato molto fortunato. Ho avuto un’infanzia felice. Sin da piccolo ho sempre avuto le donne che si occupavano di me con amore. Prima epica: lo sport, calcio e tennis, che mi hanno insegnato a conoscere meglio gli esseri umani e le dinamiche di gruppo.

Il cinema compare molto presto e diventa il mio rifugio preferito dalle paure e dalle frustrazioni. Eternamente indeciso, aspetto che siano gli altri a farlo per me, così mi lascio convincere dai miei a frequentare una facoltà che potrebbe servirmi, tanto per i sogni c’è sempre tempo.

L’università mi consente di mettere alla prova la mia resilienza. Diventa prima un alibi, poi una prigione, infine una sfida. Letteralmente, ho fatto prima economia di me stesso, poi commercio… Comunque mi sono voluto laureare con una prova che desse un senso a quel tempo sprecato, una tesi “neorealista” che potesse creare un ponte con il futuro. Economia e Società a Napoli, durante la seconda guerra mondiale, era il titolo, il mio primo lavoro di esplorazione di un grande scenario. 

 

 

Scrivere per il cinema è un mestiere molto particolare, qual è la tua ‘versione’ della professione soprattutto dopo aver lavorato tanto con registi italiani che hanno ‘scosso’ positivamente la professione con nuovi linguaggi e nuove idee che oscillano da un clamoroso e crudo realismo ad un incredibile registro fantasy, come Matteo Garrone di cui hai firmato soggetti e sceneggiature di tutti i suoi film, o quasi?

Per me è il raggiungimento di un sogno che a un certo punto mi sembrava ormai impossibile. Non scrivere per il cinema, intendo, quello non mi piace, ma è un mezzo per fare cinema, per pensarlo. Scrivere può essere molto noioso, angosciante, a volte frustrante, dato che si tratta di un lavoro interlocutorio, non finito, che leggeranno soltanto le persone interessate. Immaginare, invece, costruire dei personaggi e il mondo in cui si muovono, è il gioco più divertente che esista, specie  se lo condividi con le persone giuste, quelle che per tanti versi sono affini alla tua idea di cinema. Un gioco che io comunque prendo molto sul serio. È come viaggiare, sei spinto dalla curiosità di scoprire cose nuove, conosci luoghi, storie e persone che altrimenti non avresti mai conosciuto. Personalmente mi piace molto sperimentare, quello che faccio dev’essere vivo, stimolante, ogni volta ne devo uscire accresciuto, con la sensazione di avere imparato qualcosa. Viceversa, se diventa routine, e purtroppo capita, è la fine.

 

 

Dopo Gomorra, il tuo secondo adattamento da un libro se non sbaglio, hai sentito la necessità di un fine-tune della tua vita professionale o della tua pratica di scrittura?

No, ho seguito il flusso, sinceramente, quello che mi proponevano e che mi poteva assicurare da vivere. Venivo da un periodo di grande sofferenza economica. Però, potendomi permettere un minimo di scelta, ho cercato di aprirmi un varco in un genere che ho sempre prediletto e in cui sentivo di essere molto portato: la commedia; una commedia dai risvolti drammatici, tragicomica. 

 

 

Adoro Pranzo di Ferragosto, un film sottile eppure enorme e dirompente: ci racconti di più?

Potrei scriverci un libro su questo film, e non è detto che un giorno non lo faccia. Pur non essendo un mio film, o meglio non ufficialmente, è stato uno di quelli che mi ha dato più soddisfazioni sul piano dell’autostima ma anche più delusioni sul piano umano. In due parole posso dire di essere stato coinvolto in questa avventura da Matteo, che era produttore del film e che mi aveva chiesto di fare una revisione della sceneggiatura e di affiancare Gianni di Gregorio come regista sul set, dal momento che lui era impegnato sul set di Gomorra. Per Gianni era la storia della sua vita, ne era geloso ma era anche pieno di paure e accettava qualsiasi cosa pur di realizzarlo, anche scelte di Matteo, giuste o sbagliate che fossero, con cui non era d’accordo ma che non aveva il coraggio di contrastare. A causa di una di queste scelte, quella sbagliata naturalmente, ci trovammo a dover girare il film in soli venti giorni. A Gianni venne fuori un’ernia per lo stress e il timore di non farcela, di dovere recitare con quattro signore tra gli 85 e i 94 anni, che non avevano mai recitato, con una troupe ristretta e meno mezzi a disposizione, in una casa di 100 metri quadri e in pieno ferragosto. Matteo mi disse di prendere in mano la situazione e di girare il film in sequenza, cioè dall’inizio alla fine, come faceva lui, cercando di seguire le suggestioni che venivano fuori dal set di giorno in giorno. E di non preoccuparmi del risultato, se non ne usciva niente ci aveva rimesso dei soldi e stop. Così feci. Buttai il copione, rassicurai Gianni, motivai la troupe e ascoltai tutti i racconti delle quattro signore durante le pause pranzo per cercare di prendere quello che c’era di buono e inserirlo naturalmente nel plot. Era come camminare sul filo ma senza rete di protezione. Stancante ma anche molto eccitante. Capii che per me era il modo migliore per tirar fuori il meglio. Finimmo addirittura un giorno in anticipo e dopo avere brindato e bevuto proposi di girare un’ultima scena da usare eventualmente per i titoli di coda: feci mettere un pezzo di Roy Paci “toda joia toda beleza”, poi costrinsi tutti a ballare in una stanza dove avevamo caricato la macchina da presa, le quattro signore prima, poi Gianni, poi il Vichingo (che purtroppo ci ha lasciati) infine tutta la troupe. Indimenticabile. 

 

 

Per quale regista oggi vorresti sceneggiare o scrivere un soggetto? Perché

Per me, perché da piccolo volevo fare il regista e, sembrerà assurdo, già facevo quando ero in vacanza, nei giochi con gli altri bambini. Purtroppo sono sempre stato troppo pigro, svogliato e poco determinato. L’ho fatto, mi diverto molto di più che a scrivere, ho la presunzione di sentirmi molto più bravo e competente di tanti altri che ho conosciuto, ed è ancora il mio cruccio segreto.

 

 

Da spettatore, quali sono stati i ‘film’ necessari che restano per sempre nella tua memoria visiva ed emotiva e quali quelli veramente ‘necessari’ tra tutti quelli che hai firmato?

Non mi piace la parola necessario. Niente lo è, per me. Non mi piace fare l’elenco di film che hanno contato per me, visivamente ed emotivamente, sono troppi, preferisco che riaffiorino e vengano a trovarmi di tanto in tanto quando lavoro o nei momenti più inaspettati. Tantomeno quindi tra quelli che ho firmato sarei capace di fare graduatorie. Direi che ognuno ha rappresentato qualcosa per me, nella mia vita, non solo professionale, che poi è quello che più mi interessa. 

 

 

Dove trovi maggiormente le tue ispirazioni? Che consigli daresti ad uno sceneggiatore entry-level?

Dalle persone. Dalle vicende umane che mi emozionano o mi divertono. Dal mio vissuto o da quello degli altri. La vita è spesso più straordinaria delle storie che s’inventano. È difficile ridurla in un film. A uno sceneggiatore oggi consiglierei di seguire il proprio istinto, di coltivare ogni giorno il proprio mondo interiore come se fosse una piantina rara e preziosa.

 

 

Cosa pensi di dare alla tua città e cosa pensi di riceverne in cambio?

Io non vivo nella mia città e questo per me è già un paradosso. So che non è una città come tante altre, ha un carattere, una storia, una forte identità, è un mondo a se stante, quindi mi sento intimamente orgoglioso di esservi nato e cresciuto, sono come un ambasciatore in terra straniera. Mi sento sempre in debito con lei, ho ricevuto tanto, mi ha insegnato la tolleranza, l’ironia, la sensibilità, la modestia, il senso di giustizia o ingiustizia, la saggezza e la follia, quel poco di talento che ho l’ho assorbito tutto da lì, dall’aria del mare che ho respirato, dal cibo con cui mi sono nutrito, dalle sue strade, dalla sua gente. 

 

 

Cibo e bevanda preferita?

Visto che ho appena parlato delle mie origini, nomino prima quello ideale, della mia età dell’oro, il Sartu di riso, bello carico come si faceva a casa mia, altrimenti il pane napoletano, l’acqua e il vino.

 

 

Libro e musica con te in questo momento?

Non ce li ho. Sto leggendo soltanto libri che hanno a che fare con i miei attuali lavori. Musica zero. Anche se sono un po’ di giorni che non riesco a levarmi dalla testa “If it’s magic” di Stevie Wonder. 

 

 

Dove ti vedi tra dieci anni?

Boh, spero ancora in piena salute, in una casetta nascosta in qualche paesaggio che amo e dove ho soltanto bei ricordi, come Ortisei, oppure possibilmente vicino al mare, dove tramonta il sole. 

 

 

Cosa hai imparato sin qui dalla vita?

Che si dovrebbe viverla intensamente, attimo per attimo, senza mai risparmiarsi né lasciare nulla d’intentato, proprio come non ho fatto io… 

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