ROMANISTAN, estratto

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DOMENICA 2 GIUGNO 

Mediterraneo, un giorno di riposo. Cicogne, rondini e gabbiani. Calma increspata da piccole onde di inquietudine. 


LUNEDÌ 3 GIUGNO 

Siamo oggi alle porte di Istanbul. Malinconia perché Santino domani lo si accompagna all’aeroporto. Ultima mesta passeggiata sulla spiaggia al tramonto. È stata no a qui una bella corsa, ogni giorno una nazione diversa e almeno un incontro, interviste, dialoghi e qualche piccolo scontro. 

Con Santino si fa una sorta di bilancio. Abbiamo visto qui nei Balcani forme di rappresentanza politica che in Italia mancano del tu o. Non un leader rom ha mai ottenuto nel nostro paese incarichi di alcuna rilevanza. 

Ma c’è qualcosa che non quadra. Questi leader appaiono in fondo un po’ vecchiotti. Interpretano un fare politica che ben conosciamo: quello delle clientele e della spigolatura dei voti, portati al mulino di qualcun altro. Anziani leoni stanchi, con grandi pance prominenti, paghi di sé e un po’ bolsi. Di fronte a loro le militanti donna hanno tutto un altro aspetto e portamento, altri modi, altri pensieri, altre prospettive. 

Ma Santino non si sbilancia. Lui è in fondo un musicista, ha fa o per noi da ambasciatore lungo questa rotta europea. Non si presterà mai alla politica, dice, ma sa molte cose. Sa di come le antiche famiglie rom, stando da secoli in Italia, ne hanno assorbito alcuni vizi. Primo fra tu i quello di vivere divisi, negli interessi e nelle azioni, quel guardare al ‘particulare’ che già Guicciardini accusava come male nazionale nel lontano Cinquecento. È per questo che sorge il sospetto che queste antiche famiglie rom condividano con gli ‘italiani veri e propri’ la colpa di non aver saputo accogliere l’ultima ondata, quella entrata in Italia a ne anni Novanta dopo il crollo del muro e le guerre in Jugoslavia. Che sono poi i rom dei campi, questo pasticcio tremendo di complicità che ha finito per costituire la rappresentazione canonica di questa gente agli occhi degli italiani. Ma dice anche che forse una grande coalizione tra le famiglie storiche italiane sta prendendo forma. Dovranno assumere la conformazione della Comunità Ebraica, autorevole, rispettabile, super partes. Anche loro possono vantare nei confronti dell’Europa un risarcimento dopo lo scempio dei campi di sterminio. E dovranno presidiare di nuovo quel loro con ne inesistente. 

La frontiera turca non è ostile. Il traffico in entrata è ridotto all’osso mentre, all’uscita, la la di camion è interminabile. 


MARTEDÌ 4 GIUGNO 

Nella periferia di Istanbul incontriamo Sinan Karaca, attivista della comunità rom turca, nel suo ufficio, dove vende e noleggia auto. Il quartiere è moderno, come tu a la Turchia che è stata quasi ricostruita da zero negli ultimi quindici anni. Palazzi non belli, non brutti, messi su un po’ in fretta, le rifiniture approssimate a un decoro malmesso. 

La nazione rom turca è composta da circa se e milioni di persone. Non poche. A prima vista, guardando i volti in questo quartiere, sembrano ben mimetizzati con il resto della popolazione. La lingua è diversa, ma rimane comprensibile al nostro interprete, Santino, che ne approfitta per veri care alcune variazioni. Qui siamo nell’ultimo (il che significa il primo) territorio dove i rom si chiamano Rom. Poi, ci spiega Sinan, in Armenia incontreremo i Lom e poi, ancora più in là, in Iran, i Dom. La D rotola come una Ruota sul proprio asse. 

Nel parcheggio davanti al suo ufficio circondato da palazzine di otto e nove piani, cominciano ad affacciarsi ai balconi alcune vecchie, un bambino, un anziano, un paio di giovani maschi. Alcuni scendono e ci raggiungono in questa piazze a improvvisata nel parcheggio asfaltato. Il saluto è inedito: un colpe o di testa su testa, prima uno a destra e poi uno a sinistra. 

Compare quindi un clarino e poi un tamburo. Cominciano a suonare e parte dopo un po’ un corteo, piccolo ma vistoso. Al primo incrocio, due vecchie escono dai cortili e si mettono a danzare, con una certa sinuosa malizia. Le raggiunge anche una più giova- ne vestita da tigre. Keler, danzare. La scena si ripete più volte, cambiando i personaggi. 

Il corteo finisce nella casa del nostro ospite. Saliamo le scale fino al sesto piano (dell’ascensore è meglio non darsi). Ci accolgono due donne, una più giovane e l’altra che forse è la madre. Ovvio che c’è una grande sala, tavoli ai lati e molti divani, al centro due morbidi tappeti. Le danze continuano. I miei occhi cercano simboli di religione, ma non ne trovano. 

Lasciamo Santino nel primo pomeriggio, davanti al nuovo aeroporto di Istanbul, dopo esserci persi più volte tra le capre e le oche, Google Maps e GPS impazziti. 


MERCOLEDÌ 5 GIUGNO 

Inizia la traversata verso la Georgia. La Turchia in questa stagione dell’anno è molto verde. Ci à e infrastrutture nuove, si corre veloci su strade a quattro corsie. Passiamo sulla tangenziale di Ankara, costeggiando la capitale per una trentina di chilometri. Ankara è una distesa collinare disseminata di torri abitative, a perdita d’occhio. 

In poco più di mezza giornata arriviamo a Göreme, in Cappadocia, per una pausa tecnica. 

Oggi ci sono molti cinesi in vacanza, come a Venezia. È una ro a inversa, da est a ovest. Arrivano in aereo, suppongo ad Ankara, e poi in pullman. Il bazar di tappeti è lo spot per le foto social di nuove principesse asiatiche. Orientalismo o occidentalismo? Una via di mezzo? Mi rendo conto che la ro a che stiamo seguendo noi è quella sbagliata. 

Del resto ho sempre pensato che il lavoro contemporaneista abbia a che fare con l’inattuale, come in uno scorrimento parallelo che accompagna il reale tenendolo al suo fianco. Uno sguardo laterale dove passato e futuro, avanti e indietro, non si congiungono in un punto aureo, ma sempre lì fuori. Bisogna stare con la testa girata di lato, 90° a destra o a sinistra. Sono cose che scorrono senza una via di fuga. 


GIOVEDÌ 6 GIUGNO 

Oggi il paesaggio cambia ancora. Entriamo nei vasti altopiani dell’Anatolia Orientale. Le città regrediscono a villaggi. L’aria si fa più sottile e le coltivazioni più magre e improduttive. Prevale la roccia, affioramenti di calcare bianco, i licheni, le erbe e i fiori. 

Pecore e apicoltori. La troupe si ferma su un passo a 1.900 metri. Se ci sono i ori, ci sono le api e gli apicoltori. Elvio tenta una registrazione del suono prodotto dagli sciami. Viene bene, troppo bene. Le api si incazzano con clamore, la troupe scappa. Se la cavano con un paio di punture. 

La sera è fresca, siamo a 1.500 metri di altezza. La ricerca di un campo ci porta, dopo vari tentativi infruttuosi, a una cascata, grazie a Maps.me consultata da Giovanni, l’assistente di Luca. Sarà un luogo ameno. Finiamo nel primo dei tanti giardini edenici che costellano l’immaginario domenicale dell’Asia Minore. Balzeremo da qui in poi da un paradiso all’altro? 

Nel luogo, a quest’ora di notte, rimaniamo soli, con il rumore della cascata. 


VENERDÌ 7 GIUGNO 

Altri quattrocento chilometri di Anatolia. Il paesaggio cambia con frequenza. Roc- ce rosso sangue e verde. Una campagna quasi sarda, con campi di orzo e querce, sugheraie in miniatura, alberi di chi, gelsi e melograni. Ferite sulle montagne con colature nere, forse ardesia, ma è talco, con bei cristalli dai riflessi verde-blu. Infine arriviamo a Nemrut Daği, di nuovo rosso e verde e fioriture, mai viste così dense, di oleandri fucsia. 


SABATO 8 GIUGNO 

Oggi comincia a intensificarsi la presenza dei militari. Posti di blocco, blindati, garitte, fortificazioni sulle alture. Teniamo una distanza di sicurezza di cento, centocinquanta chilometri dal confine siriano, in una retrovia piuttosto tranquilla. I militari ci fermano un paio di volte ma, per il momento, manifestano un atteggiamento che è più di curiosità che di sospetto. 

Il paesaggio continua a mutare. Scendiamo da un promontorio per entrare in una vasta piana desolata, una sterpaia disseminata di rocce e polverose coltivazioni di orzo. L’orizzonte si perde in una foschia biancastra. Incontriamo i primi accampamenti curdi. Forme circolari di sterco di vacca impilate come formaggi – combustibile per l’inverno –, lunghe capanne di legno coperte di plastica blu o bianca, muriccioli di pietra per il riparo del bestiame, qualche casa in mattoni o cemento. Una famiglia sul trattore ci invita a pranzo, ma abbiamo troppa strada da fare, oggi, ancora. 

Quindi si risale, passando progressivamente da un basso appennino (ma siamo sui 1.200 metri) fino a pascoli di altura sui 2.000. Verde e bianco, chiazze di neve erose da prati punteggiati da ori gialli. 

Ora abbiamo fatto campo sul bordo di un lago di alta quota. I gitanti locali – è sabato – stanno mettendo via le loro canne da pesca e i tappeti da picnic. Un ultimo gruppo improvvisa una danza sull’asfalto del parcheggio prima di ritornare a casa. 


DOMENICA 9 GIUGNO 

Alla frontiera georgiana arriviamo verso le 16,00. La procedura doganale tra i due sta- ti si svolge in un capriccio architettonico dove anche il pensiero militare si è dovuto sottoomettere ad altre ragioni. Dobbiamo passare all’interno di una costruzione aero- portuale che ci digerisce lentamente da un mondo all’altro – sarebbero cento metri in linea d’aria ma sono diventati mille – attraversando un budello di vetrocemento, con tanto di duty-free. 

La luce che ci accoglie all’uscita è intensa, i volti slavi, più severi e scavati. Una vecchia rom si avvicina per venderci dei profumi, la salutiamo alla maniera di Santino (devla devla cià cià) e lei si me e a ridere felice. 

Entriamo in un nuovo regno. Batumi è adagiata sulla costa orientale del Mar Nero, sul lato opposto dell’Ucraina. 

Una lunga promenade segue la linea di una larga spiaggia di sassi, affiancando un mare che non è nero ma un blu prussiano dai ri essi d’argento. 

Corpi bianchissimi entrano ed escono dall’acqua. 

La striscia pedonale è affiancata da una rossa pista ciclabile, poi dalla strada sulla quale si affaccia una schiera di palazzi enormi, tra i venti e i cinquanta piani di altezza. Casermoni abitativi sovietici scrostati si alternano ai nuovi palazzi di gusto kazako in un carosello di eclettismo immaginato per russi facoltosi. 

Là in fondo, qualcuno ha costruito una torre che è la copia ingigantita del Bovolo di Venezia. Poco più in là alcuni operai stanno ultimando un partenone bianco su cui qualcuno ha già issato l’insegna Ristorante


LUNEDÌ 10 GIUGNO 

L’attraversamento della Georgia prima, e dell’Armenia poi, ci dona una piacevole parentesi aperta in mezzo al vasto continente islamico che stiamo per riaffrontare, dopo averlo lasciato alla frontiera turca. Anche dal punto di vista paesaggistico, questa deviazione verso nord, ci allontana dal rigore visivo del deserto, per rituffarci nel grande verde umido dei boschi. 

Oggi siamo saliti sui Carpazi, accampandoci in una valle di difficile accesso a 2.500 metri di quota. La Georgia è bella e laica. La scomparsa dei minareti dallo skyline non viene compensata da campanili e cupole. Stalin deve aver ripulito per bene il territorio da ogni emersione religiosa e, per tutta la parte di pianura che attraversiamo, nessuno sembra essersi sino ad oggi preoccupato di rimettere in piedi dei luoghi di culto. 

Ci fermiamo per un caffè davanti a un tempietto in rovina appartenuto a un’altra religione scomparsa, in mezzo ai campi, sul ciglio di una strada provinciale. 

Una stella rossa campeggia sul frontone. All’interno, i profili in silhouette di Lenin a sinistra e di Stalin a destra si guardano ormai sbiaditi attraverso la corona di spighe del Soviet. 

Ushguli è molto distante da quella placida pianura. Siamo ospiti di una famiglia di una popolazione montanara, gli svan. Le torri di pietra del villaggio sono il sim- bolo dell’autonomia georgiana. C’è qui una tenacia resistenziale, su un territorio duro e impervio e difficile da raggiungere. E c’è una comunanza possibile tra questa gente isolata, aggrappata alla roccia, e quegli altri che si sono mantenuti per secoli nella propria eccezione muovendosi sempre sui bordi e stando un po’ alla larga. Le torri e le ruote formano un unico sistema di inso-stanzialità. Entrambe simboleggiano uno stare sempre all’erta, scrutandosi a distanza con diffidenza. Rom e svan, si saranno mai fronteggiati? 

Si tratterebbe ora di trovare un pensiero della minoritarietà.
Le minoranze condividono una condizione sempre sospesa tra l’assimilazione e l’emarginazione. Si tratta come di due moti opposti, uno verso il centro, l’altro verso la periferia. Divorati o espulsi, in ogni caso votati all’estinzione. 

Santino ci parlava nei giorni scorsi di una terza via che non accetta l’emarginazione pur rigettando l’assimilazione. È un centro di equilibrio dove la cultura rom è inscritta a a pieno titolo nel grande libro delle civiltà umane. Lotta per la dignità e riconoscimento sono dunque i termini della questione. 



Luca Vitone (Italia, 1964) da Romanistan, 2019 (pp. 71 e seguenti)

Romanistan, Humboldt Books,192 p.

(Italiano, English), ISBN 9788899385651



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