Stefano Valenti, scrittore

Raramente, nella vita di un lettore, capita un libro come La Fabbrica della Paura. Non è un romanzo, non è un reportage ma è tutto questo insieme ed altro ancora. Ad esempio, è un affresco di un paesaggio interiore che magistralmente si apre a quel che accade fuori e lo ricomprende. Non cerca di spiegarlo soltanto, cerca prima di trovare pace.

Stefano Valenti è riuscito, in un’opera prima, a portare la pratica della scrittura (e la sua autobiografia) dal particolare all’universale occupandosi di uno dei temi più oscuri della storia italiana, le morti sul lavoro per l’esposizione all’amianto.

 

La tua storia in 10 righe

 

Sono nato sul fondo della scala sociale, da un padre dotato di coscienza politica e voglia artistica e da una madre di grande sensibilità, geneticamente predisposta alla malattia nervosa. Prima di trasferirmi a Milano ho vissuto del minimo necessario in una valle dimenticata da dio. La Valtellina. Ultimati gli studi artistici mi sono dedicato alla traduzione editoriale.

 

 

Che tipi di incontri fai quando lavori?

 

Sono un uomo fortunato, quando lavoro incontro pensieri, parole, racconti. Questi sono gli incontri di un traduttore, consulente editoriale e scrittore. Motivo questo che mi ha portato a scegliere questa professione.

 

 

Cosa fa la società per te?

 

La società determina incongruenze sociali rendendo necessaria l’attività di narrazione, il racconto di storie in cui queste incongruenze trovano collocazione. La società rende in questo modo necessaria la mia esistenza

 

 

Cosa fai tu per la tua società?

 

Il canarino. Le prime miniere di carbone non avevano sistemi di ventilazione. I minatori portavano nei nuovi antri delle miniere un canarino dentro una gabbietta. I canarini, particolarmente sensibili, rivelavano, stramazzando, la presenza di gas tossici. Così faccio io, rilevo la presenza degli elementi tossici del vivere e li indico nei miei romanzi.

 

 

Una cosa bella che ti è capitata di recente, oltre ad aver vinto il Campiello Opera Prima 2014 con La Fabbrica del Panico (Feltrinelli, Milano)?

 

L’avere incontrato il mondo, trascorsi anni in solitudine e vittima di sindrome da attacchi di panico. Il romanzo mi ha portato fuori di casa, a conoscere donne e uomini che la mia precedente attività di traduttore non mi consentiva di conoscere. E mi ha aiutato a contrastare le mie molte paure.

 

 

Una passione culinaria?

 

Sono convenzionale in questo senso, amo la cucina valtellinese. Pizzoccheri, formaggio e bresaole, polenta e pane di segale.

 

 

Che vino?

 

Vino rosso, necessariamente rosso.

 

 

La musica o un libro che ti accompagna.

 

Nick Cave, PJ Harvey, Thomas Bernhard, l’intera opera.

 

 

Un talento che hai, uno che ti manca.

 

Be’, non dovrei dirmelo addosso, ma raccontare mi viene facile. Meno facile montare un armadio o appendere delle mensole.

 

 

Quali sono i tuoi metodi per vivere lentamente?

 

Tradurre è il modo più lento che io conosca per vivere.

 

 

Cosa hai imparato sin qui dalla vita?

 

Ho imparato che le collettività umane sono costituite per assicurare il benessere di alcuni individui a detrimento di tutti gli altri. Ho imparato che la vita sociale offre ai comuni mortali il magro vantaggio di essere distrutti dai propri simili e non dai rigori esterni. Le scienze che si dedicano allo studio delle società umane ci dicono chi abusa di chi, con quale obiettivo, quali conseguenze, e di come quest’ordine sia conservato generazione dopo generazione. Questo ho imparato.

 

Lascia un commento