Amanti a distanza

 
Nel 1972 Joseph Beuys si fece fotografare mentre camminava. Un andare semplice. Non la dimensione collettiva e celebrativa del Quarto Stato (Pellizza da Volpedo, 1901), piuttosto la zoomata su un unico attore che con incedere sicuro testimonia la rivoluzione possibile. Il cambiamento agito nella pratica quotidiana.
In un’altra fotografia un ragazzo fermo in mezzo alla strada punta una pistola. Via De Amicis, Milano, 1977. Il capitolo è sempre lo stesso: la rivoluzione siamo noi. Anche questo ragazzo, come Beuys, nella foto è solo, ma nessuno dei due lo è veramente, anzi, con loro avevano un mondo. Entrambi calzano stivali, Beuys porta il cappello di feltro, il ragazzo un passamontagna, ma la sicurezza nell’agire è la medesima.
L’arte interviene e rivoluziona. Tutti coloro che intervengono sono artisti e questa è la rivoluzione. Pensava così Beuys quando sfidava il coyote nella stanza (I like America and America likes me, 1974) rievocando forze arcaiche; quando è tra i fondatori del movimento verde Die Grünen e a Documenta (Kassel 1982) propone il progetto di piantare 7000 querce per dare manforte alla natura e praticare un’azione di responsabilità verso l’ambiente. Una rivoluzione più “piccola” a confronto di quello che si sperava, una rivoluzione agita a partire da sé e dai comportamenti. L’unica, diranno poi in molti. Senza frittate da fare e quindi senza tante uova da rompere.
A fianco del ragazzo con il passamontagna si sviluppa la galassia del movimento antagonista. Si radicalizza il conflitto sociale ma si sperimenta anche la partecipazione collettiva come incubatore di un’altra società possibile. Anche l’arte, senza manifesti programmatici, si trova a declinare la politicità creativa e ad accentuare la sua valenza esperienziale.
La mostra Live in Your Head. When Attitudes Become Form (a cura di Harald Szeemann, Berna, 1969) aveva già messo in scena una rivoluzione culturale con opere che parlano una accanto all’altra dell’urgenza di uscire dagli schemi espositivi, forzare il pensiero e interrogare le aspettative, le rappresentazioni e il tempo. Lavori, concetti, processi e situazioni in bilico, in un’osmosi tra arte e idee foriera di nuove tensioni e relazioni. Azioni individuali, di artisti che insieme e forse senza volerlo sottolineano la forza di un agire radicale e senza mediazioni. Il momento storico è quello giusto.
È la medesima urgenza che spinge a scendere in piazza e a prendere parola su tutti gli aspetti della vita sociale, sulla politica internazionale e sui diritti. Parola politica che fa fatica a rimanere nell’alveo dei partiti rappresentati; partiti che a loro volta fanno fatica a capire perché stanno iniziando a non rappresentare più.
Certo il ragazzo con il passamontagna ha una pistola in mano e nel succedersi delle manifestazioni e dei cortei il numero delle pistole aumenta ma non si può cancellare la fotografia di Valie Export seduta su una sedia a gambe aperte. I pantaloni con un taglio a “V” sull’inguine, i genitali in vista e un mitra tra le mani (Genital Panic, 1969). Un’irriducibile della lotta femminista nell’arte contemporanea. E non si riesce a scacciare via come una mosca neanche l’immagine di Salvador Allende con l’elmetto e la pistola in mano (11 settembre 1973) al portone della Moneda prima che il suo governo sia spazzato via.
Renato Guttuso ha in mente La morte di Marat (Jacques-Louis David, 1793) e quando disegna su un cartoncino Il Neruda morente (1973) indica senza giri di parole i mandanti della morte, anche, del suo amico e poeta cileno Pablo Neruda.
Tutto è connesso.
Quando Anselm Kiefer inizia il ciclo di opere Besetzungen (1969) e si fa fotografare con il braccio alzato nel saluto hitleriano, ovviamente viene accusato di filonazismo. In realtà, manifestava la necessità di confrontarsi con la storia della Germania nazista troppo velocemente rimossa e alimento del senso di colpa delle nuove generazioni che negli anni ’60 e ’70 si chiedono come evitare che un regime totalitario torni al potere. Sono le medesime domande che Ulrike Meinhof si pone con i suoi compagni della RAF, cercando di rappresentare la Germania migliore e vergognandosi dei loro padri e nonni che non avevano saputo affrontare una colpa storica insopportabile.
Nel 1988, quando tutti gli “oltrepassamenti” sono stati dichiarati e il tempo sta maturando l’abbattimento anche dell’ultimo Muro, Gerhard Richter ritiene che non si possa non guardare alla storia del suo paese e dipinge il ciclo di opere Oktober 19, 1977. Quindici tele collegate ai fatti della Baader-Meinhof1 e alla morte dei suoi componenti nel carcere di Stammheim in Germania. La sua pittura gioca sulla sfocatura alterando la leggibilità delle immagini ma al contempo insiste lo sguardo sulle alterazioni della memoria e sul suo uso politico in relazione alla storia contemporanea.
Gino De Dominicis nel 1980 realizza Sbarre violate. Un’opera emblematica, quasi giocosa, dove le sbarre piegate sottolineano come in un’esistenza non debbano esserci limiti. I manifesti dei CUB, Comitati Unitari di Base, che tra gli anni ’60 e ’70 venivano affissi ai cancelli della FIAT, già utilizzavano quell’immagine di sbarre da cui si doveva evadere. E familiare lo è stata almeno fino alla fine degli anni ’80 quando lo spazio limitato da sbarre è apparso come l’unico epilogo possibile per la storia di molti.
 
Il ragazzo con il passamontagna, se ancora vivo, certamente si sarà meravigliato di queste connessioni, ma la storia procede così.
 
La storia la facciamo e l’artista, che tesse le invisibili trame tra le cose, rende la storia permanente.
L’arte non è niente se non vuole essere tutto e se si resta nell’ideologia estetica nulla può significare per davvero. La cultura fa la sua parte declinando, proteggendo, forzando o abbattendo il tempo a cui si riferisce e probabilmente non ha molto senso cercare altre spiegazioni al legame con la vita reale che non sia l’accadere.
Eugenio Montale è contro la guerra e le dittature ma la sua resistenza sarà soprattutto quella di salvaguardare la poesia e la cultura dalla barbarie.2 Molti artisti, negli anni ’70, hanno invece rischiato il carcere per il loro sostegno ai movimenti antagonisti. Ma questo cambia poco.
Chi nel 1937 era sul fronte spagnolo certo non si curava del Guernica3 di Picasso ma, a distanza di tempo, quel dipinto ricorda al mondo l’orrore delle guerre civili; Sartre parlava al Maggio francese4 e le sue parole non solo echeggiavano forti durante gli scontri in piazza, ma ancora ne conservano la memoria.
 
Pier Paolo Pasolini era un intellettuale impegnato ma non fu simpatico quando diede del reazionario5 a chi si opponeva alle cariche della polizia. E certamente anche il ragazzo con il passamontagna non l’ha amato. Tuttavia il suo essere “contro” è ancora carico di significati.
 
Chi agisce ha della politica un’idea troppo stringente per prendersi il tempo dell’accadere. Deve essere per questo che la politica attiva e l’arte, la cultura, benché necessari l’una all’altra, per lo più si amano e si guardano a distanza.
La storia è una materia complicata quasi mai obiettiva e l’artista disegna connessioni. Si tuffa nella storia tutta, quella conosciuta, e cerca di dare forma. Per la scienza e la politica, l’arte non ha un immediato uso tangibile eppure senza arte rimane poco. E, che si sia stati indifferenti al lavoro dell’artista o del poeta, quando tutto sarà finito, l’arte continuerà.
 
Claudia Gioia
Alfredo Jaar | Abbiamo amato tanto la rivoluzione – Fondazione Merz, IT/EN, 2013, ISBN 9788877572578, Euro 35, 264 pagine
Per acquistare il volume: http://fondazionemerz.org/prodotto/alfredo-jaar-abbiamo-amato-tanto-la-rivoluzione/
Il testo è parte di un saggio più esteso, A tutti noi, che ripubblichiamo per gentile concessione dell’autrice e dell’editore che ringraziamo. Il volume è stato pubblicato in  occasione della mostra omonima di Alfredo Jaar tenutasi negli spazi della Fondazione nel 2013.
Note
1. Organizzazione armata appartenente alla RAF Rote Armee Fraktion, che nasce in Germania nel maggio del 1970.A Gregorio Magnani che ritiene di leggere “una certa pietà” nei dipinti della nota serie, Gerhard Richter risponde: “C’è del dolore, ma spero che si possa interpretare come un dolore per delle persone morte così giovani, ed in maniera così folle, per nulla. Le rispetto e rispetto anche le loro aspirazioni, o meglio il potere delle loro aspirazioni. Perché hanno cercato di cambiare le cose stupide del mondo”. (“Interview with Gregorio Magnani, 1989”, in Gerhard Richter: Text. Writings, Interviews and Letters 1961-2007, Thames & Hudson, London 2009, p. 222)
2. Questo che a notte balugina / nella calotta del mio pensiero, / traccia madreperlacea di lumaca / o smeriglio di vetro calpestato, / non è lume di / chiesa o d’officina / che alimenti / chierico rosso, o nero. / Solo quest’iride posso / lasciarti a testimonianza / d’una fede che fu combattuta, / d’una speranza che bruciò più lenta / di un duro ceppo nel focolare. […] Non è un’eredità, un portafortuna / che può reggere all’urto dei monsoni / sul fil di ragno della memoria, / ma una storia non dura che nella cenere / e persistenza è solo l’estinzione. / Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato / non può fallire nel ritrovarti. / Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio / non era fuga, l’umiltà non era vile, il tenue bagliore strofinato / laggiù non era quello di un fiammifero. (Da La bufera e altro, parte VII, Neri Pozza, Venezia 1956).
3. Titolo del dipinto realizzato da Pablo Neruda nel 1937 a seguito del bombardamento della città di Guernica durante la guerra civile spagnola e presentato durante l’Esposizione internazionale di Parigi. Per volere di Picasso il quadro non è rientrato in Spagna fino alla caduta del regime franchista.

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