Un anno di sogni. Con noi

Napoli (più volte), Venezia (più volte), Bologna, Brescia, Cosenza, Padova, New York (più volte), Londra (più volte), Salò, Roma (più volte), Palermo, Celle, Brunico, Parigi (più volte), Siria, Brasile, Colombia, Beirut, Milano, le Alpi e gli Appennini…: avete viaggiato con noi in questi luoghi – ed oltre.

Dopo una deliziosa raccolta di citazioni dalle nostre interviste del 2018, scoprirete il nostro consueto regalo di inizio anno (un video), carico dei sogni del precedente (e con una speciale colonna sonora)

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La parola è il fondamento di tutto ciò che costituisce la nostra umanità. Le nostre parole sono importanti anche quando parliamo di cose che sembrano non esserlo. L’espressione, il modo, i toni che scegliamo, sono essenziali per la qualità delle nostre relazioni e della nostra vita in generale. Le parole, quando sono basse e vili, ci mettono di fronte alla degradazione della nostra umanità e del nostro pensiero. La musica, in fondo, come la poesia e la letteratura, sono le sentinelle di questa condizione così fragile, sempre in bilico tra elevazione e sprofondamento.

Io provo a fare tutto il possibile e sono anche attratta da ciò che mi sembra impossibile e che mi sfugge. Ci provo ogni giorno e non è detto ovviamente che riesca in tutto. Per me è sempre una questione d’energia, di espressione, di amore e non di performance o, peggio, di prestazione. Sono convinta che il “sapere” riguardi non solo la testa (mente) ma tutto il corpo. Le mani che scrivono e che suonano, ad esempio, mi fanno capire che ne sanno molto più di me. Io devo solo seguirle e fare un po’ di spazio…

È questo quello che cerco di passare direttamente e indirettamente anche alle mie due figlie, Antonia (12 anni) e Francesca (3 anni). Poi, per quello che riguarda Napoli, posso dire solo che l’ho scelta come mia città per una molteplicità di ragioni. Quella più importante è che offre una visione delle cose a tutto tondo, nella loro nudità e verità nel bene e nel male.

Stefania Tarantino (Napoli) filosofa femminista e cantautrice

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Dopo due anni di scuola alberghiera e dopo il lavoro al ristorante di cucina giapponese lì per quattro anni…

Mi sono accorto che mi piaceva la pasta!

Ogni giorno libero dal lavoro, di solito la domenica, andavo sempre a mangiare italiano…E alla fine sono entrato in un ristorante italiano. Ho lavorato a Kobe, nella mia città e poi a Hiroshima.

Dopo mi è venuta voglia di imparare davvero la cucina italiana dove nasce. Qui.

Sono arrivato a Firenze, non conoscevo la lingua e quindi mi sono iscritto alla scuola di lingua (il suo italiano è ottimo, a tratti con inflessioni tosco-venete). Per due mesi ho imparato tutto quello che potevo, visto che parlavo pochissimo inglese e di italiano sapevo solo buongiorno/buonasera, grazie, ciao. Ho affittato una stanza da una signora italiana, pensa quando mi ha spiegato come si usava la lavatrice non ho capito nulla e siccome non volevo romperla ho lavato per due mesi a mano.

Non capivo bene come fare a prendere i bus e allora camminavo ogni giorno per 5 km per arrivare a scuola, sia per andare che per tornare.

Avevo, allora, 26 anni: l’Italia è stato il mio primo viaggio. Avevo anche tanta paura degli stranieri. E fumavo, all’epoca. In Giappone nessuno mai chiede una sigaretta per strada mentre qui tutti le chiedono ma allora non potevo immaginarlo.

Appena sceso in stazione un signore, forse un homeless, mi ha chiesto tendendo una mano una sigaretta ma allora non avevo capito. Pensavo stesse male e allora gli ho dato due pacchetti di sigarette. Poi ne arriva un altro e ancora un altro e ancora un altro….Dopo vari pacchetti di sigarette andati, ho imparato a dire ‘sigaretta finita’.

Masahiro Homma, chef, Venezia

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Alla fine sono due linguaggi differenti: in quello musicale il ritmo ti da’ una mano enorme e un’atmosfera, oltre che dei punti fermi nella composizione del testo. La forma canzone ha dei tempi più ristretti, dai 3 ai 3 minuti e mezzo: devi riuscire ad essere evocativo e comunicativo. Qui la scrittura è diversa da quella della pagina bianca, dove un ritmo devi crearlo tu solo e dove forse hai anche più responsabilità.

Per me i due linguaggi rimangono piuttosto difficili. Non ho mai avuto facilità a scrivere per la musica o per la narrativa. E’ anche, certo, gratificante quando esce qualcosa di bello (o che reputo bello): non credo ci sia una sensazione paragonabile a questa.

Ci sono stati dei periodi in cui sono stato costretto a scrivere in contemporanea testi di canzoni e pagine di racconti o di un romanzo nell’arco della stessa giornata: è difficile passare da una voce all’altra. E’ vero: è pur sempre scrittura e quindi in qualche maniera si fa.

Non è la stessa voce: lo ha notato anche chi conosceva solo i miei libri e poi si è avvicinato alla musica o viceversa. Le due voci non sono sovrapponibili.

Emidio Clementi (Bologna), scrittore e rocker

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Napoli, amata e complicata: cosa dai alla città che attualmente vivi nei ritagli di tempo dal lavoro e cosa senti essa ti restituisce? Cosa invece Cosenza?

Sicuramente vivo Napoli da privilegiato, non lavorando a Napoli e godendo quindi dei suoi aspetti migliori. In particolare, l’acume dei suoi abitanti e la vicinanza col mare.

Napoli è la città dove esprimo un po’ della mia creatività, ma senza mai prendermi troppo sul serio!

Pur con i suoi difetti e problemi, che noi napoletani conosciamo, trovo che sia una città piena di spunti e di potenzialità, con un grande fermento culturale e una intrinseca generosità.

Chi sa mettersi in ascolto, nelle pieghe delle sue imperfezioni,  può trovare il sogno della vita. E non è poco.

Cosenza invece per me significa sopratutto lavoro, e quindi disciplina.

Sergio Cappelli (Napoli-Cosenza), notaio e collezionista

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Senti spesso parlare di come le biblioteche sono costrette a cambiare, quindi anche noi! Ad essere onesta tutto questo mi fa strano e al contempo mi diverte – dato che le biblioteche ed i loro addetti sono sempre stati soggetti ai cambiamenti. Anzi sono abituati perché hanno le capacità per valutare le informazioni e trasformarle in conoscenza utile – e spesso in saggezza. E’ molto riduttivo pensare alle biblioteche come luoghi dove trovare soltanto libri – non lo sono ed in verità non lo sono mai state. Le prime bibilioteche erano piccole stanze riempite con tavolette di argilla, le successive erano attrezzate per le pergamene, poi per i codici ed infine per i libri. Ed ora anche per i computer, i tablet (è come un ciclo che si compie). Il nostro lavoro si concentra sull’immagazzinare le informazioni (su ogni formato) e renderle utili – quindi la pluralità è la nostra norma. La biblioteca del MONA è speciale perché è molto tradizionale nel suo nucleo: una collezione meravigliosa di libri. Tuttavia, utilizziamo ampiamente le ultime tecnologie per fare ricerche e per gestire la nostra collezione. Siamo fortunati a poter lavorare sui migliori aspetti del processo bibliotecario. Ogni giorno ci porta nuove sfide e nuova frenesia.

Mary (Hobart, Tasmania), bibliotecaria

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Lamantica è nata da poco, eppure si fa davvero ascoltare con piacere.

Micro casa editrice rigorosamente in carta azzurra, che inizia col genere più desueto nel paese (la poesia) e si espande nel teatro ed oltre, con un particolarissimo taglio editoriale. 

Come vi è venuto in mente Giovanni Peli, Federica Cremaschi. E come va a Brescia? 

F:   Potrei risponderti che le nostre prime conversazioni letterarie sono avvenute nelle mezze luci delle gallerie del teatro stabile cittadino in cui Giovanni ed io ci siamo conosciuti facendo le maschere, da poco laureati, lui poeta, cantautore e bibliotecario, io traduttrice e attrezzista (molto) free-lance. Dunque la poesia e il teatro sono stati i nostri primi bocconi condivisi,  ben prima di diventare compagni nella vita e nel progetto editoriale. Brescia, da non bresciana, conserva per me ancora un certo fascino dell’inesplorato, ma al di là dell’apparenza di rinnovata città d’arte e cultura, c’è anche parecchio di provinciale, bottegaio e clientelare. Non è propriamente stimolante, difficile creare reti di affinità e collaborazione, ma a volte gli impedimenti e le iniziali chiusure sono altrettanti stimoli a immaginare e tentare  altro. Di Giovanni l’idea di fondere le nostre passioni e competenze e creare una micro casa editrice che percorresse proprio quei “confini di genere” che spesso pongono – o così si vuol far credere – problemi di commercializzazione e ricezione di un “prodotto librario”.

G: Vorrei aggiungere soltanto che la poesia non è affatto un genere desueto: c’è oggi (ma credo che sia sempre stato così) in Italia una produzione veramente massiccia di poesia ed esiste anche una pubblicazione strabordante di opere di poesia. Difficilissimo orientarsi, tra case editrici e webzine, spero che accanto a questa produzione si affini ancora di più la critica, purché sia davvero libera da pregiudizi e non si affidi sempre all’approvazione di certi editori o alla continua celebrazione e auto-celebrazione di soliti poeti noti. Sono sicuro che ci sia molta fuffa in questo immenso calderone poetico ma sono altresì sicuro che la fuffa stia anche nei cosiddetti “alti livelli”. Non sono pochi i “difensori” della poesia, pronti a dire cosa è poesia e cosa non è poesia. La questione è davvero spesso mal posta e crea solo dibattiti sterili e vari “partiti”, più che riflessioni estetiche valide. Credo che spesso un poeta vengo considerato per ragioni extra-poetiche, per la sua notorietà, per la sua capacità critica, per il suo potere editoriale o altro. Poi al netto dei discorsi bisogna leggere e molto spesso tanto blasonati autori non (mi) smuovono per nulla. Insomma è complicato sia scrivere sia pubblicare sia diffondere la poesia oggi, ma di certo è un ambiente molto vivo. Si fanno perfino parecchi Festival di Poesia…

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Non è la prima volta che intervistiamo musicisti o cantautori, ma è la prima volta che intervistiamo un duo così esplosivo, ironico, tremendamente intelligente e sovversivo (verso certi stili della musica dance).

Come vi siete trovati, Hard Ton, e come è nato il vostro progetto?

Wawashi: Ci siamo conosciuti su una chat per bear e loro ammiratori. Abbiamo però capito che entrambi coltivavamo una grande passione per la musica anche sa da prospettive molto diverse.

Max: Sì, lui il dj underground di house music e io il cantante heavy metal, e per quanto entrambi abbiamo provato a contaminare il bagaglio musicale dell’altro, alla fine l’ha vinta lui!

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Ti occupi di scienza e di ricerca, in particolare di una rara forma di leucemia (la leucemia a grandi linfociti granulati)?

E’ una forma particolare di patologia, recidiva, che colpisce particolarmente in età adulta.

Ci racconti la tua giornata ed in particolare gioie e dolori di questa specifica professione?

Inizia col treno, mezzo a cui sono affezionata e che mi permette di riprendermi dalla sveglia mattutina e approdare a Padova preparata. Il tempo del viaggio è un tempo mio, di lettura, chiamate, pausa riflessiva dal corri corri della vita. A Padova ho la mia bici, 10 minuti e sono in laboratorio al VIMM (Istituto Veneto Medicina Molecolare). E una volta in laboratorio il lavoro è sempre un po’ diverso, non esiste routine. C’è sempre un progetto o più progetti in corso, il tipo di esperimenti e analisi sono diversi in base al dato da scoprire. Nel tempo anche il gruppo di ricerca è variabile nei componenti (…)

Le gioie: capire qualcosa che prima non sapevi, la cellula è un piccolo mondo; scoprire qualcosa di nuovo, mai descritto prima, contribuire ai passi avanti nello studio delle leucemia; trasmettere la conoscenza, riuscire a coinvolgere chi approda in laboratorio all’entusiasmo della ricerca; intraprendere sempre nuovi percorsi, nuovi obiettivi; lo scambio, le collaborazioni tra diversi centri, questo lavoro ti porta in giro, per collaborazioni e congressi, si viaggia, si incontrano altri punti di vista per affrontare la ricerca. E’ un lavoro dinamico.

I dolori: la precarietà dei contratti, dei finanziamenti, l’ansia delle scadenze, a volte ci sono ritmi serratissimi per chiudere un progetto, lo stress di preparare tante cose. Ma i ritmi serrati contribuiscono all’adrenalina della scoperta e della pubblicazione. Altri dolori: a volte è difficile restare sempre al passo con tutto ciò che gravita attorno al mondo della ricerca, lavorare bene, ossia in modo efficace, proficuo e di qualità, non è facile. Non solo costa, ma prevede anche fortuna, occasioni, mezzi, e a volte c’è la frustrazione di non essere in grado di supportare tutto. 

Antonella Teramo (Padova), ricercatrice

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Benvenuto, Spencer, su Slow Words…che è una fanzine letteraria fatta di interviste!

Mi piace iniziare questa conversazione dicendo che sei l’unico giornalista di design che leggo per le interviste. Non è solo perché dirigi una delle migliori riviste di design in circolazione (Surface); è perché racconti sensazioni e sentimenti che provi con i tuoi intervistati e per il modo in cui condividi le tue percezioni con i lettori. Rendi, inoltre, il design, accessibile e comprensibile anche a chi non è del campo, ma il tuo lavoro resta comunque molto utile ai professionisti.

La tua vita è stata molto avventurosa – e non sempre semplice per te. E hai solo 33 anni, se non vado errata! (per i nostri lettori che leggono l’inglese, la pagina Wikipedia è perfetta per i dettagli)

Sono curiosa di un dettaglio molto celato nella tua biografia. Hai studiato poesia al college. C’è ancora un posto per la poesia – letta o scritta – nella tua vita attuale?

E’ vero! La mia tesi al Dickinson, un piccolo college d’arte liberale nella Pennsylvania centrale, era sulla poesia jazz, attraverso il lavoro del poeta inglese Philip Larkin. Una roba inebriante! Se la leggessi ora probabilmente farei una smorfia!

Sono rimasto interessato, ma non attivo, alla poesia sin da allora. E in un modo direi sottile, la poesia continua ad dare forma al mio lavoro da giornalista. Leggo ancora poesia di tanto in tanto ma non ne scrivo più. Mentre frequentavo la scuola di giornalismo alla Columbia, scrissi un pezzo sul perché magazine come The New Yorker ed Harper’s continuavano a pubblicare versi, per scriverlo incontrai il poeta Timothy Donnelly, che in seguito raccontai per Poetry magazine: fu la mia primissima feature in una rivista!

Su Surface, abbiamo pubblicato poesia solo una volta. Per un articolo, una sorta di celebrazione di Detroit come Città Unesco del Design: abbiamo inviato i fotoreporter Michelle e Chris Gerard a ritrarre alcuni dei landmark di design della città – il conservatorio di Belle Isle, il Detroit Naval Armory, la fontana di Noguchi’s Hart Plaza. Abbiamo poi inviato un’immagine ciascuna a diversi poeti americani, per interpretare il progetto o l’immagine a loro modo. E’ stato un pezzo bellissimo, e resta uno dei miei favoriti negli ultimi cinque anni. Probabilmente dovremo ospitare più poesia nel nostro mensile!

Spencer Bailey (New York) – direttore di Surface Magazine

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Cara Diana,

Ti scrivo dalla cucina di casa mia al Lago di Garda, a poco più di due mesi dalla conclusione dell’ormai passato pellegrinaggio sulla Via Francigena.

Un fatiscente ricordo reduce da mille racconti tra svariati banchetti natalizi e annuali appuntamenti familiari, con morali sottratte alle proprie esperienze: svanisce come il lampo in torpida nebbia. E alla fine della forte pronuncia anche il suo eco si lascia dissolvere nella gentil brezza, non toccata e accogliente. Una brezza che per il suo percorso continua imparando e gioendo, connettendosi con l’uggiosa nuvola, ascoltando l’irrompente fulmine di primavera. Inciampando nello struggente tornado che non perdona, ma vuole solo capire. Il vento come compagno onnipresente, in tutta la sua calma ed irruenza. Come medicina. Come filosofia. Come metafora. Come esempio. Perché il vento mi sia rimasto cosi’ impresso nel ricordo del viaggio, non saprei. So che i motivi che mi hanno spinto a intraprendere l’esperienza, come fulmini, si sono riappacificati ed uniti alla brezza pellegrina. Adesso i motivi, I bisogni che escogiterei per giustificare qualsiasi mia decisione sarebbero diversi da quelli di due mesi fa. 

Sono uno studente di Contemporary Media Studies alla University of Westminster a Londra. Terzo ed ultimo anno, con la tesi che e’ ormai un’impronta nel percorso universitario. E’ il settimo anno che trascorro all’estero: nel 2010, su offerta dei miei genitori, ho accettato di tagliare a meta’ il rimanente anno ‘scientificamente’ scolastico nella tranquilla ed allora opprimente Salo’, e finire il Liceo altrove. So… England I’m coming.

Un salto nel vuoto che, a ripensarci ogni volta, non può far altro che rafforzarmi nei cosiddetti momenti di difficoltà. Senza che me ne accorsi era il 2012, la famigerata parola liceo si dissolve in quel che pensavo insormontabile.  Scalai e riuscii… Pronto all’infinito ed oltre, adesso. 

Il desiderio, o meglio, una pozione magica fra desiderio e bisogno di rompere quei cosi’ proclamati, vezzeggiati, venerati ed usurpati (dalla realtà dei fatti) doveri, amoreggiava con la fantasia di fare esperienze del quarto – se non pure quinto – tipo; esperienze che a lungo andare verrebbero considerate irrational – e forse quest ultimo punto e’ vero. 

Passi ben definiti, linee guida pronte a sfuocare e circoscrivere un campo visivo che offre un infinita’ d’ostacoli e possibilità, bellezze ed orrori, colori e partite a scacchi le quali perderemo, o vinceremo, ma sempre con quel qualcosa di guadagnato. Perciò… Click! E con quel click hai deciso che ostacoli e possibilità vuoi che ti si presentino nella tua fotografia, le bellezze da raccontare e gli orrori da abusare vigliaccamente e seppellire in mari di stupidaggini. 

Puoi ancora scegliere come colorare quella scacchiera; attenzione pero’, bianco e nero non sono ammessi. Ovvio ma ricordiamocelo ancora una volta: scegli chi vuoi essere. Non vorresti trovarti nella situazione del pedone mangiato da un cavallo:  mossa sbagliata, niente capo A. 

Gabriele Simonini, studente tra Londra e Salò

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Un particolare periodo della sua vita è diventato una autobiografia sognante e delicata, che al contempo traccia – consapevolmente ed acutamente – anche un ritratto di un’epoca speciale fatta di importanti cambiamenti nel nostro paese. Ci racconta la gestazione del libro e cosa  l’ha gratificata di più nel crearlo?

Il libro è nato per caso, come spesso le cose più belle della vita.

Ho preso consapevolezza di un’infanzia ed una giovinezza vissute in decenni che con gli occhi di oggi appaiono irreali. Gli anni ‘60 prima da bambino e gli anni ‘80 poi da ventenne, hanno lasciato in me segni indelebili soprattutto in termini di emozioni, sogni, passioni, colori di vita, perché sono stati anni di fermenti, creatività, novità sotto ogni punto di vista. Era l’esplosione di tutto e specialmente di una grandissima gioia di vivere. E così un giorno ho deciso di raccontare e di raccontarmi, di riavvolgere il nastro della memoria e tornare indietro a quel momento in cui come una “ piuma” cadevo in una morbida culla a Posillipo. Ma poi c’erano anche la malinconia e i momenti bui che tutti i bambini e gli adolescenti inevitabilmente  hanno nel loro percorso di vita alla ricerca di una giusta collocazione nel mondo. E così ho raccontato anche quelli, e mentre Anton il protagonista del libro cresceva tra gli alti e bassi della vita, sempre accompagnato dai suoi sogni, anche il paese e il mondo tutto cambiavano.

Anton Emilio Krogh (Napoli-Roma-Palermo), avvocato e scrittore

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Oltre 64 artisti per oltre 80 opere che si integrano nel paesaggio, anzi diventano tutt’uno con esso. Cosa l’ha ispirata ad iniziare e proseguire con sempre maggiore dedizione la sua collezione di arte ambientale ospitata dalla sua tenuta, la Fattoria di Celle, poco fuori Pistoia nella meravigliosa trama del paesaggio toscano che ancora produce olio e vino?

La mia collezione ha due intervalli precisi, uno che definirei storico (i cui lavori risalgono alla guerra e successivi, soprattutto di artisti che allora rappresentavano l’avanguardia ed utilizzavano linguaggi nuovi). Per questo contingente di opere avevo ristrutturato un piccolo edificio a Prato che divenne presto un cenacolo, un luogo id incontro molto effervescente dove artisti e critici venivano volentieri da ogni parte d’Italia (Prato, come lo chiamo io, è l’ombelico della penisola, tappa obbligata per chi viene da Nord e chi viene da Sud del paese). Questo cenacolo vivace durò fino alla primavera degli anni 70.

Abbiamo trasferito la collezione storica a Celle, nella villa dove trovi anche 10 lavori di Burri, ad esempio e molti altri. Questa collezione non ha niente in comune con quella di arte ambientale di Celle, che inizia dopo di questa.

Nella mia vita ho capito presto di essermi innamorato del modo di fare arte ma nel 1961 ho fatto un’esperienza che mi ha cambiato il modo di intendere l’arte. In quell’anno visitai il Museo di arte catalana di Barcellona – ero in città perché mi avevano invitato alla locale università per un’introduzione ed un omaggio ad un artista, Osvaldo Licini. 

Il museo ospitava opere d’arte antica anche dall’anno 1000 in avanti, allestite nei contesti re/costruiti appositamente, per dare un-idea delle condizioni esistenti quando l’artista ha concepito il suo lavoro. Per darle un’idea, se il pezzo esibito era una pala d’altare, allora veniva mostrata con un altare ricostruito attorno. Ricordo ancora che chiamai immediatamente mia moglie Pina che era rimasta a Prato per dirle che ero davvero meravigliato e che avrei voluto tornassimo insieme a visitare ancora questo museo. Mia moglie mi rispose che forse anche io sarei stato impressionato da qualcosa d’altro che stava per dirmi (mi rivelò che aspettava il terzo figlio!)

In quel periodo vedevo anche le prime opere di arte ambientale che erano concepite con materiali precari per manifestazioni temporanee. Così ho voluto sfidare gli artisti a lavorare insieme allo spazio per creare un’opera durevole nel tempo.

Sono arrivato a Celle nella primavera del 1970. Prima di questa fattoria, possedevamo un’altra proprietà agricola che era fantastica da questo punto di vista (anche molto più importante di Celle nella sua funzione originaria) ma non era adatta a diventare quello che per lei aveva in mente, così la vendetti.

Giuliano Gori (Celle) – mecenate e collezionista, agricoltore

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Interno, inverno, terraferma (solo chi vive a Venezia ha la frequentazione quotidiana con questa parola, un mondo più che una locuzione). 

Un amico dj che presto finirà su queste pagine mi porta ad un party a cui si arriva solo per passaparola, il teatro è una grande casa che appena si intuisce. Lo scopo del suo tour era farmi innamorare della terraferma, io radicata nei paludi e nei canali.

Notte fonda, musica meravigliosa, temperature tropicali dentro e fuori il perimetro delle pelli.

La grande casa è, mirabilmente, tutta infagottata di bianco – le scenografie opaline a rincorrersi creando volumi irreali dove persone ovunque sorridenti ed amichevoli si alternano ad opere e creazioni in ogni dove fatte con nulla o quasi ma hanno trovato la chiave, sì: puntano dritte al cuore. 

Dovevo assolutamente conoscere chi questo l’aveva prima immaginato e poi creato e messo insieme circondandosi di persone fuori dal comune come lui. Mi faccio largo tra centinaia di volti e faccio due chiacchiere in giro, poi arrivo a lui, Maximilian Holzer: sin dal primo momento in cui ho incrociato lo sguardo ho capito che della sua aura è difficile dimenticarsi. Perché anche il qui ed ora come lo scolpisce lui è pura poesia, di quella magistrale.

Quando mi sono trovata davanti uno studente di design appena ventenne, sono rimasta ancora più sorpresa e ancora più felice. 

Ci siamo rivisti a prendere un caffè un pomeriggio primaverile, sonnolento e domenicale accanto a un paludo e sopra un canale e ora vi racconto di lui, lasciando quasi intatte le sue stesse parole. L’italiano non è la sua lingua madre ma lo parla benissimo.

Inizio sempre chiedendo della biografia perché mi interessa capire le radici di una persona in relazione alle scelte che sta facendo. Anche con te faccio la stessa cosa anche se sei giovanissimo, appena 20 anni!

Sì hai ragione, sarà brevissimo allora! Ho un nome tedesco perché vengo da Brunico (Alto Adige). E’ un piccolo paese in mezzo alle montagne con una mentalità molto chiusa. Non si trovano tante culture diverse. Siamo circa 15.000 abitanti. Io sono cresciuto in un paese che è ancora più piccolo, ha 5000 abitanti, e poi mi sono trasferito nella città più grande perché ho cambiato scuola. 

E’ un posto meraviglioso, pieno di natura e cose belle. Sono riuscito ad apprezzarlo la prima volta quando mi sono staccato, quando mi sono trasferito qui a Venezia.

A Venezia per studiare design e grafica allo IUAV ma purtroppo sono molto deluso.

Maximilian Holzer (Brunico-Venezia), studente e designer di party

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Gioie e dolori del lavoro come sacerdote e come docente?

Raccontare l’Iliade e l’Odissea è un piacere.

La gioia dell’insegnamento è l’insegnamento stesso, quando vedi gli studenti coinvolti. Ma il loro coinvolgimento dipende dal nostro impegno, e dalla nostra abilità nell’insegnare.

Il mio dolore è assistere alla trasformazione dell’università americana da un luogo di cultura ad una fabbrica di voti. Questo stressa gli studenti dato che la valutazione non è sul rendimento reale: perdono il piacere di imparare e di studiare. Quindi, per converso, si perde il piacere di insegnare.

Da sacerdote, le cose stanno diversamente. È una religione straordinaria, profondissima, le cui fondamenta sono simili a quelle della religione greca antica. Emotivamente il legame con la filosofia della Yoruba è forte e questo fa sì che continuamente io mi abbeveri per così dire alla sua fonte e che rinnovi nel quotidiano il giuramento con quelli che sono i suoi principi. Lì, la gioia, così come anche la semplice pratica sacerdotale, il lavoro con i fedeli. Molti dei credenti della mia religione sono di un ceto sociale non privilegiato, con una situazione demografica difficile. E all’interno del discorso religioso c’è molto spazio per il riscatto personale. Soprattutto per le donne, che attraverso il sacerdozio, spesso guadagnano posizioni di privilegio che restituiscono loro dignità all’interno di gruppi sociali in cui normalmente sono relegate in posizioni marginali, e questo in un paese già razzista, all’osso, terrificante. Poi come ogni sacerdozio è esigente, ma questo lo si accetta.

Tiziana Rinaldi Castro (New York) – docente, scrittrice e sacerdotessa

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Cito da una tua recente performance Stealing Brecht: ‘Le parole hanno fatto una differenza’. In che senso una differenza nella tua vita? Puoi dirci in poche parole chi sei e da dove vieni? Cerchiamo sempre di iniziare le nostre interviste con pizzichi di realtà della persona di questo mondo che ci troviamo di fronte

In quanto esseri umani, troviamo un senso grazie a narrative, storie e linguaggi – in questo mondo. Le parole possono essere parlate, scritte, disegnate o interpretate (penso alla lingua dei segni o alla danza)…Ad esempio, il cambiamento climatico o altri grandi temi: non li capiamo attraverso i dati scientifici ma attraverso la storia – la narrativa.

Ho vissuto molto, molte cose. Ho trovato rime e composto poesie e non è stata la più eccitante ad essere la più importante. Mi hanno letto storie, poesie in pagina, letto un libro, composto rime, giocato con le parole! Ecco questo, tutto questo. (canta un verso che decompone la parola ‘pelle’ ma non ha molto senso metterlo in pagina perché è nato per essere soltanto udito)

Le poesie sono mezzi grazie ai quali gli umani riemergono a se’ stessi e per se’ stessi. Cibo, relazioni, sensazioni (sono affamato, ti amo, ti odio, fa male), le storie diventano via via più complicate; ecco come sentiamo il mondo e come viaggiamo attraverso storie e linguaggio.

Certo, abbiamo la musica ed il suono e molto altro ancora ma è il fare parola – non importa se scritto, visivo, parlato o recitato – che crea senso per noi delle norme che ci circondano.

Gobscure, Newcastle

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Ci racconti come è nata We Are Here Venice?

Lavoro per l’organizzazione da poco più di un anno. Ero in città dal 2016 per alcuni mesi grazie ad uno stage per una fondazione culturale locale quando incontrai Jane, la direttrice di We Are Here Venice. Fui immediatamente presa da lei e da quello che faceva e fui così interessata perché, avendo già vissuto qui per tre mesi, già pensavo che nessuno di occupava dei tanti problemi e sfide che questo territorio rappresenta.

Ho studiato scienze politiche ed italiano all’Università di Bath, in Inghilterra. Mentre i miei amici a Londra si occupano di professioni più o meno simili, ho preferito trasferirmi qui.

We Are Here Venice è stata fondata da tre persone nel 2015 ma la sua idea cresceva già da un po’ prima della sua ‘apertura’ ufficiale. Per essere precisi, la prima azione che ha ideato è quella in occasione della Biennale di Architettura 2010, quando Jane ha collaborato con lo studio che citavi, in carico del Padiglione Inglese. Jane è una scienziata ambientale.

Di quel padiglione ne ho scritto più volte e me lo ricordo precisamente tutt’ora. Hanno fatto un’operazione simile, la vasca con la barena…

Sì, e dopo sia l’idea che l’organizzazione sono cresciute. I mesi passati sono stati molto intensi e abbiamo intrapreso altri progetti oltre ad essere stati coinvolti in altri portati avanti da altre istituzioni, quindi l’attenzione della stampa continua a crescere.

Siamo più bravi in quello che facciamo dopo gli scorsi due anni, sia nell’individuare le migliori aree d’azione che nell’essere più efficaci nel dialogare con chi vuole essere coinvolto nelle nostre attività e su come intraprendere azioni per le sfide che ci circondano.

Abbiamo cinque aree di progetto. La prima è ‘Contro le grandi navi’ ed è forse la più emblematica, di sicuro quello contro cui ci battiamo è il problema più grande di Venezia. Simbolizza qualcosa di più: tutto quello che non è giusto qui. Se possiamo risolverlo e raggiungere una soluzione equa che è attualmente allo studio, aprirebbe le porte a risolvere qualsiasi altro problema. 

Gabrielle, We Are Here Venice (Venice)

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La tua vita in poche righe, fino a quando diventi ‘Dop Amina’ Saracino

Sono nata a Napoli da genitori non napoletani; cresciuta a Secondigliano a colpi di telefilm americani, cipster, big babol, e imitazioni di Barbie (quelle originali costavano troppo). Ho cominciato a lavorare presto, prima a Napoli poi a Rovereto, per un pezzo. Sono tornata al sud e ho frequentato, per alcuni anni, il teatro, tra formazione e spettacoli e ho speso buona parte dei miei stipendi in libri, vhs e dvd. Dopamina è nata come profilo facebook; una identità virtuale che oggi uso per portare in giro i miei testi.

La poesia in Italia sembra una collina in salita ma le sale di reading sono spesso gremite e i social pieni di versi. Dove sta la verità? E’ il publishing tradizionale che stenta?

Non so rispondere a questa domanda. Personalmente non sono molto interessata al settore editoriale, diciamo che è una scelta di campo. Non mi va di trattare il mio lavoro come un prodotto “oggetto” da vendere, preferisco il territorio dell’espressione estemporanea, del qui ed ora. Chi vuole può trovarmi in giro a leggere qualcosa. La trovo una dimensione a me più congeniale e anche più contemporanea. Come campo? Con un altro lavoro, come molti autori, anche di epoche passate, non è una novità. O sei ricco o fai un lavoro, quale che sia. Del resto il contatto con la vita, con la gente, con le cose del mondo non può che fare bene a chi si muove in campo artistico. Io non mi lamento.

La tua poesia è straordinaria: mischia ironia e violenza, dolcezza e crudeltà e mi è sembrato prenda di mira spesso le comfort zone che tutti ci creiamo prima o poi. Se dovessi recensirti cosa aggiungeresti o cosa toglieresti?

Puntualizzerei un concetto. In alcuni dei miei testi uso parole tipo piccola, dolcezza, bambina o tesoro, rivolgendomi al pubblico, ad ogni singolo uomo o donna tra il pubblico, con tono dolce, accattivante ma dicendo cose sostanzialmente terribili perché ritengo che una certa cifra della nostra contemporaneità sia una sorta di infantilizzazione della società, la tendenza a mantenere le persone in uno stato di bisogno e dipendenza attraverso l’uso costante di seduzione e false promesse, con una modalità che definirei “materna” dell’esercizio del potere.

Dop Amina (Napoli) – poetessa

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E’ proprio il caso di dirlo: quando si è talmente entusiasti del proprio lavoro e lo si scrive nel nome del proprio studio, è molto più di un manifesto (quando i manifesti ormai sono pericolosamente di moda…). Che c’è dietro alla scelta del nome del vostro studio (in italiano suona come ‘Ancora Felici’)?

Julien Choppin: Il name Encore Heureux nasce da un’intuizione. Non ci piaceva tanto chiamare lo studio con i nostri cognomi uno accanto all’altro, come spesso accade tra architetti o professionisti. Stavamo quindi cercando qualcosa che potesse tradurre il carattere collettivo dei progetti che portavamo avanti. L’espressione Encore Heureux ci ha interessato su due livelli: il requisito minimo per prendere in carico situazioni esistenti, un ottimismo combattente. Questo nome inoltre ci ricorda l’ambizione di benessere che tutti cerchiamo ma anche il desiderio di coltivare una lucidità costante. Riflette un’attitudine a lavorare serenamente nella complessità che ci circonda.

Encore Heureux – Parigi

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La tua vita in poche righe prima che incontrasse i Pinc Louds (la tua band, che è composta da te, Ofer Bear, Ray Mundo, Marc Mosterrein)…

La mia vita era fatta di ombre verdi e di aiuti alle vecchie signore a trascinare le loro borse del supermercato. Era anche danzare sulle punte e masticare matite. Era raccontare storie e marimba su una montagna, nella mia testa, sull’isola di Puerto Rico. Ero un bambino felice.

Più tardi le foglie si seccarono ed il sole divenne bianco, rimbalzando su tutto. Il dolore intorno a me si fece troppo evidente ed il mi cervello si adombrò. Ho vissuto molti anni in questa oscurità. Strisciando ciecamente in giro per il mondo alla ricerca di quelle ombre verdi. Poi, un giorno, nuvole rosa si spalmarono sopra il sole e invece delle ombre verdi, ottenni ombre rosa e questo è stato un nuovo tipo di pienezza.

E la tua vita dopo?

Tutto si è ricomposto direi magicamente con i Pinc Louds. Incontrai Rai e Ofer Bear ad una festa del Day of the Dead proprio quando queste nuvole rosa iniziavano a formarsi. La ragazza che dava quel party mi regalo un bellissimo vestito rosa e tutto si mise a posto.

La mia fortuna è oltre, è incredibile. Ho iniziato a suonare nelle stazioni della metropolitana e sono stato in grado di guadagnarmi da vivere così mentre promuovevo la band e i nostri live. E le persone iniziavano a venire ai nostri concerti. Da lì, molti altri ‘umani’ cominciarono ad unirsi al gruppo, come i pupari (Jamie McGann, Madison Berg, Kevin Pérez e Jamie Emerson), MTA Pedro (il nostro preferito come danzatore, percussionista e cantante tra i lavoratori della MTA la compagnia della metropolitana di NYC), Marc Mosteirin (il più grande chirurgo tastierista di sempre) e dozzine di altre persone che ci hanno aiutato, solo per amore dell’amore…

Claudi (New York), musicista e frontman (Pinc Louds)

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‘Benvenuti Rifugiati’ (Refugees Welcome) è un network internazionale. Nato in Germania nel 2014 è arrivato nel luglio 2015 in Italia. Per mitigare la tragedia dei migranti che sta scuotendo e dividendo l’Europa: volontari, dal basso, riuniti in un’associazione, operano concretamente per dare un tetto ai rifugiati mettendo in relazione loro e le famiglie che si candidano ad ospitarli.

Per ora sono in quattro grandi città italiane ed altri territori (Roma, Milano, Torino, Bologna, Abruzzo, Padova, Marche e Romagna). Come scoprirete tra breve, si stanno rapidamente espandendo e sono aperti a contributi per incrementare questa originale offerta di coesione e inclusione sociale. Spesso una famiglia o un gruppo di amici sono la soluzione migliore per i traumi di chi cerca di integrarsi per capire come funziona un altro paese quando è stato costretto a lasciare il proprio….Slow Words li ha incontrati, per raccontare a voi quanta energia, scoperta e meraviglia maneggiano (e restituiscono al mondo) ogni giorno.

Come funzionate in pratica?

Abbiamo un database e circa 200 volontari e facciamo in modo che le disponibilità offerte possano essere sfruttate. Gli attivisti principali e i fondatori non sono distribuiti uniformemente in tutto il territorio. La piattaforma italiana di Benvenuti Rifugiati è online da dicembre, ad oggi censisce 412 famiglie registrate, quindi disposte variamente ad ospitare. Magari ancora non siamo in grado di soddisfare tutte le richieste di famiglie disposte ad ospitare in una determinata area perché mancano ancora i volontari necessari in quella zona che ci aiutano ad organizzare l’accoglienza.

Ti faccio un esempio, magari in Calabria abbiamo quattro o cinque volontari che non sono nella stessa città. Ci vuole un po’ di tempo per crescere uniformemente…

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‘Pronto, In Galera’

‘Salve un tavolo per 5, festeggiamo il compleanno di mia moglie stasera…’

No, non state leggendo un romanzo. E neppure siete davanti alla TV dove danno una futuristica serie TV girata in un altro paese.

Qui Bollate, Lombardia, Italia.

C’è un ristorante dove, a parte il maitre, tutti i professionisti impiegati stanno scontando una pena, ma in carcere hanno ottenuto un diploma alberghiero e lavorano nella ristorazione esattamente dove scontano questa pena.

Aperto a pranzo e a cena (ma anche in grado di organizzare banchetti esterni), In Galera viene da un maturo progetto di responsabilità sociale che affonda nel 2004 e viene integrata nel 2012 quando un istituto alberghiero della zona, il Paolo Frisi, si impegna con un intero ciclo di studi per diplomare i detenuti con cui già effettuava attività di formazione interna.

Alla vigilia dei primi diplomi, l’anno scorso, inizia un percorso ancora più ambizioso. Grazie al comodato d’uso di alcune strutture nel carcere modello d’Italia, ABC (con l’aiuto di una società di social responsability, Good Point, PwC e fondi che vengono da Fondazione Cariplo ed altre iniziative comunali) apre il primo ristorante in un carcere (non uno qualsiasi ma nel carcere più stellato d’Italia!), che si chiama appunto In Galera.

Oggi a In Galera potete mangiare, sedendovi a tavoli allegri, mise en place una tovaglietta A3 di carta spessa con impresse foto della struttura. Trovate una buona scelta di antipasti, dai 10 ai 15 euro: si va dalla semplice michetta con trippa al ‘Galante’ (galantina di pollo funghi, prosciutto crudo con pasta di tartufo) fino a salmone e branzino al fumo curati in cucina. Per continuare con primi piatti e zuppe (anche il risotto al cioccolato), secondi di pesce o di carne ed una invitante scelta di dolci – stagionali come tutto il menù ed ‘espressi’, cioè sovente preparati al tavolo dei commensali che li ordinano.

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Il tuo (giovanissimo eppur assai maturo) teatro è magma, che mischia ironia e dramma, grande recitazione e strenuo lavoro sul corpo dell’attore. 

L’adattamento dei testi si affianca perfettamente ad un’incredibile traduzione visiva come se fossero due anime della stessa storia. 

Ti ispiri alla letteratura, esplorando fedelmente autori e amandone la creatività, facendo risaltare il loro linguaggio così come avrebbero voluto. 

Perché hai scelto sin qui la strada della trasposizione di testi letterari in questo particolare modo? 

C’entra qualcosa il tuo smodato amore per la lettura? 

Oppure sei uno strenuo sostenitore del potere della letteratura?

Intanto ti ringrazio per queste belle parole. Non sono molto d’accordo, però, quando tu dici che il ‘’mio’ teatro è un magma che mischia ironia e dramma (ecc..). Non sono d’accordo perché questo vorrebbe dire che io ho uno ‘stile’ nel trattare i materiali con cui lavoro. Per me, invece, è quasi il contrario: il testo al quale scelgo di lavorare (sia esso letterario o teatrale) guida la messa in scena. Questo non vuol dire essere didascalici ma dialogare con il testo e la scrittura e cercare di volta in volta il modo di organizzare e restituire in scena la particolare struttura del romanzo o dell’opera teatrale che sto affrontando. Nel caso di Walser e del suo Jakob Von Gunten è proprio la scrittura a passare in modo continuo dalla chiacchiera al monologo all’allucinazione fino a pagine nelle quali si spalancano improvvisamente davanti ai nostri occhi paesaggi sconfinati e inquietanti (le guerre napoleoniche o il deserto come ultimo luogo di fuga per l’uomo) per poi tornare immediatamente e con leggerezza alla chiacchiera. Questo stile crea quella che Roberto Calasso nel suo saggio Il sonno del calligrafo chiama ‘l’ironia ininterrotta di Walser’. Proprio con questo tipo di scrittura, per alcuni aspetti ‘irrappresentabile’, mi sono confrontato nello studio della messa in scena e nelle prove con gli attori per arrivare a trovare qualcosa che avesse a che fare con Robert Walser e col suo romanzo. Quando ho lavorato su Bestia da stile di Pasolini avevo davanti un testo molto diverso e il lavoro che ne è venuto fuori aveva poco in comune con questo Jakob Von Gunten.

Scelgo i testi letterari perché pongono in continuazione al regista una domanda fondamentale: cosa significa ‘rappresentare’ qualcosa?

Fabio Condemi (Roma) – regista teatrale under 30

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La tua vita sin qui

Sono siriana nata in Francia, ho vissuto tutta la mia vita in Siria. Mi sono trasferita in Libano un anno dopo l’inizio della guerra, alla fine del 2012 e sono rimasta lì fino a quando ho finito il mio film. Ho deciso di non lasciare Damasco prima di terminare di scrivere la sceneggiatura, che ho scritto all’inizio della guerra. E ho deciso di non lasciare il Libano prima di finire il film, nonostante le condizioni di residenza davvero difficili per i Siriani nel paese. Ora, mentre rispondo alle tue domande, sono in viaggio per Toronto dopo Venezia per presentare anche lì il mio film. Spero che il mio prossimo lavoro, che il prossimo passo della mia vita, sia in un paese differente, dove possa avere qualche minimo diritto come residente.

Soudade Kaadan (Siria) – sceneggiatrice e regista

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La tua vita in poche righe. Fino a qui.

Sono nata a Parigi nel 1975. I miei genitori divorziano quando ho cinque anni, sono stata una bambina e poi una teenager che ha sempre sognato di vivere dentro un libro od un film. Dopo gli studi in letteratura e filosofia, sono entrata a La fémis, scuola di cinema, nella sezione sceneggiatura. Lasciando la scuola, gli inizi a lavorare con la scrittura sono stati difficili. Il primo film che ho co-sceneggiato e che è andato nei cinema nel 2012 è Camille Redouble di Noémie Lvovsky. Oggi sono una sceneggiatrice full-time e mi dico ogni giorno quanto sia fortunata ad essere stata in grado di aver messo l’immaginazione al centro della mia vita.

Che significa un film ‘necessario’ per te? Mi da un esempio? Qual è lo stato dell’arte della industria cinematografica francese (ci sembra molto buono, in generale, ma mi piacerebbe ti concentrassi a rispondermi sullo stato di salute dell’industria nel genere di film come il tuo ultimo)?

Un film ‘necessario’ per me è un film che riesce a parlare allo spettatore dal fondo della sua solitudine, che gli da la sensazione di non esser più solo, che quel film è davvero entrato nella sua vita.

Un film ‘necessario’ è quello che ci connette di più al mondo. Ci sono così tante pellicole che mi hanno accompagnata che è davvero difficile citarne una sola. Quando ero giovane, molti film sono venuti a cercarmi – non li dimenticherò mai: The shop Around The Corner di Ernst Lubistch, Barry Lindon di Stanley Kubrick, The Four Hundred Shots di François Truffaut, Fanny and Alexandre di Ingmar Bergman.

In Francia siamo fortunati a poterci permettere ancora il cinema d’autore. 

Maud Ameline (Parigi) – sceneggiatrice

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La tua vita in poche righe fino ad oggi

Ho sempre cercato di prestare la voce, di creare consapevolezza e di difendere chi non fosse messo in grado di farlo con un podio adeguato alle sue istanze.

Avevo 15 anni quando ho imbracciato per la prima volta una telecamera filmando la mia famiglia, mentre ero alla ricerca di storie su mia nonna che era appena morta.

Dopo aver studiato storia, geopolitica e dopo aver fatto tanti stage in agenzie stampa diverse, ho iniziato con la regia di video sulla cultura pop. Mentre dirigevo dei video di musica hip hop, facevo anche scuola su altri set per comprendere tutti i passi necessari a fare un lungometraggio. 

Ho girato un corto intitolato Fatum in cui il personaggio principale anche lì esce di prigione e cerca di reintegrarsi nella società. La disparità nelle opportunità, la detenzione e il fallimento nel reinserimento mi hanno spinta a dirigere un documentario all’interno della prigione di Nanterre. Ho seguito giorno dopo giorno otto detenuti in un seminario di teatro durato un anno.

Che valore ha per te l’aggettivo ‘necessario’ vicino a un film? Puoi darmi qualche esempio? Qual è secondo te lo stato dell’arte dell’industria cinematografica francese dal punto di vista di film ‘impegnati’ come il tuo, l’Enkas?  A noi sempre in ottima salute ma preferisco concentrarmi sulla domanda relativa a film come i tuoi.

Un film necessario è autentico, così come reali e veri sono i vissuti dei tuoi personaggi, senza campanelli e fischietti. Un cinema che pone domande è quello che io difendo e credo di fare.

L’Enkas pone domande fondamentali e crea empatia con i suoi personaggi. Con L’Enkas voglio che il pubblico sia nelle scarpe d’Ulisse quando la pellicola finisce. E’ una fetta di vita filmata attraverso una lente umana che promuove eroi danneggiati. Questo è il necessario per me nel cinema: dire la storia di quelli che di solito non consideriamo.

Sarah Marx (Parigi) – regista

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Il tuo strumento d’elezione è la chitarra – sia classica che elettrica. Non ci crederai, ma quando chiediamo alle persone di questo mondo che intervistiamo quale fosse il talento che desideravano avere, il 99% risponde che avrebbe voluto saper suonare uno strumento e quasi tutti la chitarra.

Qual è la vera ed ultima ragione per cui tu l’hai scelta e quale sarebbe la scelta se fossi chiamato a farla oggi? Sempre la chitarra?

Sono cresciuto circondato da musica: classica ma specialmente il rock degli anni 60 e 70. C’era sempre una chitarra a casa e mio padre mi ha insegnato i primi accordi. All’inizio tutto quello che volevo era suonare la chitarra come Jimi Hendrix o Eric Clapton…Divenne una vera ossessione e solo più tardi scoprii, con la pratica, altri generi musicali. Che hanno aperto la via a esplorare finalmente la composizione contemporanea. La chitarra è uno strumento così tanto versatile che lo sceglierei nuovamente, anche oggi.

Daniel Alvarado Bonilla (Colombia-Parigi), compositore

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Liberamente ispirata alle poesie della raccolta Mediterraneo di Anna Maria Mazzoni, Luna Doppia è un brano breve ma intenso e assolutamente celestiale che raccoglie suoni antichi (e suoni mai uditi) in grado di ‘riprodurre acusticamente’ il brillare della Luna sull’acqua, sulle superfici. E molto altro ancora: ogni anima in ascolto risuonerà con quei nove minuti composti a computer. Ognuno secondo il proprio vissuto seguendo le sensazioni che suscita.

Più che riprodurre quel brillare di luna, Luna Doppia lo immagina e lo crea perché ovviamente ‘di suo’ questo fenomeno non ha suono: semmai ad avere una ‘marca’ sonora sono i paesaggi in cui ci capita di osservarlo.  Insomma è una composizione con spiccate doti ‘spaziali’ che permette alla mente di immaginare un viaggio in quella scia di luce. Che penso molti di noi abbiamo almeno una volta desiderato possedere.

E’ un’esperienza con doti taumaturgiche, che sfiora addirittura certi territori della cura che io considero affini allo sciamanesimo o comunque a una inconsueta – per le nostre tradizioni – esperienza di presa in carico profonda. Della mente, dei propri vissuti e di certe ossessioni.

Non potevo che incontrare chi quel pezzo l’ha composto, Laura Bianchini (compositrice nata a Trevi nel Lazio nel 1954), scoprire chi era e da dove veniva tutto questo.

Viene da una famiglia di musicisti…

No, per niente. Contadini di montagna, fino a quando ci siamo trasferiti a Roma all’inizio degli anni Sessanta.Molto determinati e provati dalla fatica  del lavoro.

Nessun fronzolo, nessuna indulgenza verso cose altre, nessun….

Niente, assolutamente niente.

Neanche la cultura?

La cultura sì. Devo moltissimo ai miei e soprattutto alla mia nonna paterna che è una persona che purtroppo non ha avuto modo di studiare visti gli anni in cui è vissuta. Le donne, specialmente, non avevano grandi possibilità ma lei ha imparato a leggere (e a scrivere) da sola. Nel tempo ha coltivato questa sua passione – certo, leggendo i Messali e quel poco che trovava.

Mi ha trasmesso una capacità di comunicazione attraverso il racconto perché lei era bravissima a raccontare storie ed io stavo ad ascoltarla per ore. Ho coltivato questa dimensione dell’ascolto a lungo. E devo tutto a lei.

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La tua vita in poche righe ma esattamente da dove è iniziata e da dove hai cominciato a delineare le tue passioni e la tua vocazione attuale

Sono nato in una piccola città del sud del Brasile e, da quando ho memoria, la musica è sempre stata al centro del mio minuscolo universo – musica significa radio, musicassette e vinili di molti generi diversi. Quando avevo 11 anni, i miei genitori si trasferirono a Porto Alegre e ben presto iniziai a suonare la chitarra, spostandomi piano dal pop-rock al rock progressivo e strumentale, al jazz fusion, alla world music fino a scoprire la classica contemporanea che è stata una vera rivelazione! Ho poi studiato chitarra classica in Brasile e mi sono trasferito in Europa nel 2002, dove ho studiato composizione nei Paesi Baschi, teatro musicale in Svizzera e musica elettronica e per computer in Francia.  E’ stato anche molto importante – sia sul piano personale che professionale – vivere insieme ad artisti di diverse discipline nelle residenze che ho fatto a Roma, Madrid e Vienna. Importanti anche le collaborazioni con musicisti che hanno curato ed eseguito il mio lavoro, come per esempio Charlotte Testu di recente (una contrabbassista francese, di cui leggerete la storia la prossima settimana in chiusura del nostro ciclo dedicato alla musica contemporanea scoperta alla Biennale di Venezia #BiennaleMusica2018 #CrossingTheAtlantic).

Dimmi di più della vita del compositore nel tuo paese e se il sistema – dalle commissioni pubbliche a quelle private, incluso premi e competizioni – è abbastanza onesto e giusto

Guardando da fuori, penso che la musica contemporanea in Brasile ‘succeda’ soprattutto nei dipartimenti di musica delle università statali disseminate nel paese. Fuori da lì, non c’è un circuito solido con orchestre specializzate, festival, residenze, premi e sponsor (pubblici o privati che siano), etc, come si trovano in alcuni paesi qui in Europa. E’ forse per questa ragione che molti compositori contemporanei brasiliani vivano fuori dal paese.

Aurelio Edler-Copes (Brasile-Parigi), compositore

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Parlo da amatrice e non certo sono una ‘ascoltatrice professionista’, ma penso che il contrabbasso sia un po’ l’ossimoro della classica e della contemporanea. E’ il più grande dell’orchestra ed è così difficile da essere suonato da solista ma al contempo è il più versatile. Non solo per l’improvvisazione…

Hai recentemente scelto di cimentarti in un concerto da solista per contrabbasso ‘elettronico’ eseguendo un programma scritto solo da giovani autori (di cui ne abbiamo già intervistato uno, Aurélio Edler-Copes) alla #BiennaleMusica2018, #CrossingTheAtlantic.

L’elettronica è la tua direzione principale o preferita?

Uso il contrabbasso in ogni direzione: sono sempre curiosa di vivere le più diverse esperienze. Quando sono sulla dimensione elettronica, che di certo è assai differente da quella acustica, sono interessata maggiormente ad esplorare l’estensione di questo strumento. E’ anche, forse, parte di un percorso generazionale ed è qualcosa che possiamo fare con la ricerca attuale ma è anche parte di un repertorio già solido nella storia della musica contemporanea. Va però detto che l’uso dell’elettronica richiede un sacco di strumenti e molti tecnici estremamente competenti – e che i pezzi non hanno mai vita lunga. 

Siamo fortunati, in Francia, ad avere centri di creazione per questo tipo di musica.

Charlotte Testu (Parigi), contrabbassista 

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Scrivere per il cinema è un mestiere molto particolare, qual è la tua ‘versione’ della professione soprattutto dopo aver lavorato tanto con registi italiani che hanno ‘scosso’ positivamente la professione con nuovi linguaggi e nuove idee che oscillano da un clamoroso e crudo realismo ad un incredibile registro fantasy, come Matteo Garrone di cui hai firmato soggetti e sceneggiature di tutti i suoi film, o quasi?

Per me è il raggiungimento di un sogno che a un certo punto mi sembrava ormai impossibile. Non scrivere per il cinema, intendo, quello non mi piace, ma è un mezzo per fare cinema, per pensarlo. Scrivere può essere molto noioso, angosciante, a volte frustrante, dato che si tratta di un lavoro interlocutorio, non finito, che leggeranno soltanto le persone interessate. Immaginare, invece, costruire dei personaggi e il mondo in cui si muovono, è il gioco più divertente che esista, specie  se lo condividi con le persone giuste, quelle che per tanti versi sono affini alla tua idea di cinema. Un gioco che io comunque prendo molto sul serio. È come viaggiare, sei spinto dalla curiosità di scoprire cose nuove, conosci luoghi, storie e persone che altrimenti non avresti mai conosciuto. Personalmente mi piace molto sperimentare, quello che faccio dev’essere vivo, stimolante, ogni volta ne devo uscire accresciuto, con la sensazione di avere imparato qualcosa. Viceversa, se diventa routine, e purtroppo capita, è la fine.

Massimo Gaudioso (Roma) – sceneggiatore e regista

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La tua vita in poche righe, con un accenno specifico alla tua prima ‘stazione’ e a quella che occupi oggi. Vorrei dare molta importanza alle tue origini perché per me ha molto senso proprio riguardo il modo che hai scelto per raccontare (e per essere in) questo mondo

Sono cresciuta in una città postindustriale di medie dimensioni, alla periferia della contea Amish della Pennsylvania, dove è comune vedere contadini in borghese a cavallo che con i carretti portano i loro prodotti sul mercato. Mi ha sempre affascinato e ispirato – soprattutto ora, nel XXI secolo – il loro modo di sostenere (e prosperare in) queste comunità preindustriali e artigianali.

La mia città natale è stata anche la culla del Rodale Institute, uno dei primi ‘campioni’ nel giardinaggio biologico, nelle attività all’aria aperta e nella salute preventiva. (Rodale Press è di proprietà aziendale ora, ma era più casalinga prima con riviste come Prevention, Organic Gardening, Bicycling, Runner’s World, New Farm). 

Il Rodale era in anticipo sulla curva, culturalmente parlando. 

Negli anni ’70 eravamo soliti fare viaggi di classe nei loro campi di prova, un periodo in cui la maggior parte degli americani riteneva ancora che l’idea di organico fosse troppo hippy-dippy.

Ho iniziato a passare il tempo all’estero in giovane età – frequentando la scuola superiore nel sud della Francia all’età di 15 anni, studiando all’estero nel nord dell’Inghilterra a 20, copiando un giornale in lingua inglese a Pechino a 29. Il mio primo lavoro pubblicato era un saggio in rivista letteraria del liceo che paragona le culture francesi ed americane. Più tardi ho scritto di tempo libero e viaggi per pubblicazioni britanniche e cinesi. Mi è sempre sembrato naturale vedere la cultura dall’esterno e riconoscere che ci sono molti modi di vivere ed essere in questo mondo.

Un altro filone intrecciato nella mia vita sta partecipando a media alternativi e comunitari. Ho iniziato a fare il DJ nelle stazioni universitarie da adolescente (urla forte a WMUH, “l’unica stazione che conta”!) e a fare il reporter per un settimanale di news alternativo a Philadelphia, dove ho avuto modo di scrivere su questioni locali e intervistare attivisti locali. È facile vedere come queste origini aprissero il mio percorso al giornalismo, all’educazione e alla cultura critica-culturale.

Jennifer Rauch (mondo), teorica degli Slow Media, giornalista e docente

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La tua vita in poche righe, sin dall’inizio

In realtà sono diventato giornalista per caso perché non sapevo cosa fare e cosa volevo studiare. All’inizio volevo fare film ma i miei genitori erano contrari a questo e non finivano di dire che sarei diventato un barbone, senza casa e per strada! Così sono finito in una business school per laurearmi e uscire a fare altro.

Uno dei corsi di marketing all’università che frequentavo è stato tenuto da un’insegnante molto stimolante e una volta mi ha detto (giudicando un articolo che era parte di un progetto): “Ibrahim sei un ottimo scrittore!”. Non mi era mai venuto in mente di poter scrivere, ma quell’esperienza in qualche modo mi ha messo completamente su un’altra strada: uno, mi sono reso conto che potevo effettivamente scrivere; due, ho finito per essere messo in contatto con una pubblicazione. E ho iniziato a scrivere per loro quando stavo studiando; ho anche iniziato presto a scrivere per altre pubblicazioni, quindi sono diventato un giornalista.

Da bambino, sono cresciuto in un piccolo villaggio vicino al mare nel nord del Libano, vicino a Tripoli. Quando compii diciotto anni andai a studiare a Beirut. I miei genitori erano in Arabia Saudita e quando tornarono in Libano la guerra divenne così folle che si trasferirono in campagna.

Mi è piaciuto il lavoro giornalistico per un po’, poi ho lavorato nella pubblicità e poi, quando l’energia della Primavera Araba ha iniziato a bollire ovunque, ho sentito che lavorare con queste pubblicazioni è assai irrispettoso per l’intelligenza dei lettori – alcune riviste ad esempio ricevono comunicati stampa dalle aziende e li pubblicano intatti senza alcuna critica.

Sentivo anche che c’era la mancanza di una piattaforma in grado di catturare l’energia di questo mondo e dei giovani arabi, per far capire loro dove stavano andando.

Quando parli di mondo arabo, c’è sempre una narrazione a un canale che racconta di una regione devastata, dilaniata dalla guerra in cui mancano le opportunità.

Volevo rappresentare una narrativa più piena di speranza, è così che è nata l’idea di The Outpost ed è per questo che è stata definita ‘la rivista delle possibilità’.

Ibrahim Nehme, giornalista ed editore (Beirut)

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Di solito editori e giornalisti – quando sono giusti e saggi – dichiarano i loro orientamenti  se si tratta di politica e partiti.

Dichiaro la mia piena ammirazione per voi, Assemble Studio, e sento che c’è bisogno di dichiarare questo sostegno anche su una fanzine letteraria e non profit perché quello che fate non è solo architettura, arredamento e specifici paesaggi. È molto politico quando modella (e scolpisce) una certa idea di cittadinanza.

Vi siete formati nel 2010 e fatti notare incredibilmente nel 2015 quando avete vinto, inaspettatamente, il Turner Prize prima di tutto essendo architetti di mestiere e in secondo luogo essendo un gruppo e non un individuo.

Cosa vi ha portato a formare Assemble e cosa è successo nella vostra agenda tra il 2010 e il 2015, lasciandovi sentire che stavate seguendo il vostro percorso esattamente come desideravate verso chiari obiettivi (e sogni) per un mondo migliore?

Abbiamo formato Assemble per intraprendere un progetto costruito, il Cineroleum nel centro di Londra, nel 2010. Siamo stati provocati dal desiderio collettivo di costruire insieme, in contrasto con le nostre esperienze quotidiane di lavoro negli studi di architettura londinesi che ci vedevano impegnati a disegnare dettagli e layout di servizi igienici. Questo desiderio collettivo, 8 anni dopo, è ancora un nucleo fondamentale per la nostra pratica e ha continuato a plasmare le relazioni che abbiamo tra di noi e il lavoro che facciamo insieme. Dal building del nostro studio – Sugarhouse Studios, una comunità di uffici disposti attorno a risorse condivise – a workshop ad accesso aperto come il Blackhorse Workshop a Walthamstow.

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Chi vive al quartiere Isola di Milano ne riconquista le strade al mattino.   Di sera c’è la calca dei bar chiassosi, dei “ristoranti” di burger, delle birrerie, ma verso le nove del mattino regna una discreta pace, così si esce silenziosi dai portoni e ci si dirige con calma verso uno dei tanti bar per un caffè. I criteri di scelta sono molti, la qualità del caffè è solo uno dei tanti, non sempre il più importante, conta la musica che si sente, l’arredo, la qualità delle brioche, la gentilezza degli esercenti, la presenza o meno dei giornali e di una rete wifi efficiente. Così nel tempo si assiste a delle vere e proprie migrazioni: gli habituè del quartiere abbandonano un certo bar per trasferirsi in uno nuovo dove hanno scoperto brioche più buone o più giornali o meno fastidi se si vuole rimanere con il computer a lavorare. Sono migrazioni non programmate, ognuno decide per conto proprio, ma voilà nella nuova scelta rivede le persone che incontrava nella precedente. In queste migrazioni mi sono trovata spesso a procedere nella stessa direzione di Filippo Parodi, che ritrovavo nel nuovo bar intento, come sempre, a scrivere con le cuffie in testa e il computer sul tavolo. Era giocoforza conoscersi e ho scoperto con meraviglia che alle nove del mattino lui iniziava a scrivere dopo essere già stato in palestra. Non rimaneva che intervistarlo sul suo lavoro di poeta e scrittore. 

(Emina Cevro Vukovic intervista Filippo Parodi)

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Va’ Sentiero è una non profit appena fondata che ha un progetto davvero incredibile: far rivivere il percorso di trekking più lungo del mondo, chiamato Sentiero Italia, ‘delineato’ trent’anni fa da alcuni alpinisti. Si tratta di una vera e propria ‘chiave d’accesso’ dell’intero paese via trekking e sappiamo quanto l’Italia sia la più incredibile destinazione turistica del mondo.

Tuttavia, l’Italia attuale è sfortunatamente non proprio il paese migliore dove vivere perché non ci sono molte opportunità di lavoro specialmente per i giovani (abbiamo il più alto tasso di disoccupazione giovanile) e quel che è peggio è che il turismo – il vero ‘oro nero’ del paese, in grado di risolvere il problema occupazionale per tre generazioni – non è gestito affatto dalla politica e dalle istituzioni deputate.

Non da ultimo, ahinoi, i venti di tempesta della destra più razzista, low-profile e autarchica che questo paese abbia mai conosciuto soffiano forte e non contribuiscono di certo a rappresentare l’Italia come è naturalmente da sempre: la più aperta tra le destinazioni del continente ‘per natura’: un lembo di terra antichissimo tutto circondato dal mare che dal nord Europa si allunga fino a lambire l’Africa.

Sapete che qui a Slow Words amiamo le menti in cammino che vogliono migliorare il loro intorno ed in particolare amiamo il turismo lento – infatti abbiamo già cercato e trovato spesso storie in questa direzione e abbiamo già intervistato un manager francese che ha camminato per tutta l’Italia usando solo i suoi piedi. 

Nessuna sorpresa quindi che siamo andati a conoscere meglio i giovani protagonisti di Va’ Sentiero, anche se stanno appena ‘debuttando’ nella loro missione!

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(scopri di più su tutte le interviste di Slow Words)

Le nostre e le loro parole lente vanno nella stessa direzione e verso lo stesso scopo: sentire e comprendere le qualità della vita e di che sapore sono fatti i sogni ad ogni latitudine, senza discriminazioni o confini.

Rileggiamo e traduciamo per voi poeti, scrittori e cantautori da molte altre città ancora. Spesso inedita, la letteratura che selezioniamo per voi viene da ogni tradizione culturale e da ogni secolo con una speciale predilezione per autori di opere prime.

In tutto il 2018 abbiamo anche portato i nostri lettori affezionati in posti molto insoliti per far loro conoscere di persona gli scrittori che abbiamo intervistato e selezionato mentre gustavano del buon cibo e ascoltavano buona musica. I nostri readers’ club sono una gioia e sono sempre a libero accesso.

Le nostre storie, tutte vere, servono a dare nuove prospettive. E nessuno collezionerà mai le storie come lo facciamo noi.

Noi, persone di questo mondo, possiamo fare la differenza.

Slow Words People and Stories from this World ha bisogno del tuo sostegno per l’anno che stiamo vivendo, il 2019, e ogni tua donazione alla nostra non profit sarà una piccola opera d’arte e metterà al sicuro questo podio libero che genera letteratura dal reale per un altro anno ancora. Scrivici per saperne di più e per sapere come contribuire!

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