La Turista

Entrò dalla porta una turista. Le aprì un uomo avvolto in un lenzuolo. Aveva un volto stanco, triste e assonnato, un’espressione spenta e sofferente. I capelli biondi, sebbene tesi ed induriti, le contornavano il viso. Uno zaino da viaggio le pesava sulle spalle ed era visibile oltre l’esile testa.

L’uomo le sussurrò quali spiegazioni dare al portiere se le avesse chiesto chi fosse. Le disse poi che l’amica della turista, coinquilina dell’uomo, sarebbe rientrata quella sera stessa. Dopo di che tornò a dormire.

La turista poté solo dire: “sono felice di aver trovato la tua casa”. In verità quello non era un quartiere molto frequentato da stranieri. I piccoli vicoli, sempre pieni di persone, erano polverosi. L’immondizia era sparsa ai lati della strada. All’angolo della via da una casetta verde di legno veniva distribuito pane a prezzi calmierati mentre file di donne e uomini attendevano la razione quotidiana stabilita. Spesso le urla di chi rimaneva senza pane si trasformavano in armi puntate al cielo in segno di forza.

A pochi passi iniziavano sporadiche le bancarelle del mercato, aperte giorno e notte. Nel mercato di frutta e verdura, nonostante ci fosse una zona coperta, i venditori preferivano disporsi ai lati della strada e, collocata una lampadina sopra il banco di legno, aspettavano le richieste dei passanti. Un fetore chiaro di verdure putrefatte coglieva chi fosse passato in quell’angolo di strada e avesse voluto interrogare cipolle e pomodori sulla loro freschezza.

Scesa dal taxi che l’aveva condotta dall’aeroporto a quella casa, la turista intravide appena questa scena. La sua amica le aveva dato informazioni precise sulla strada da percorrere, sui soldi da spendere, sulle cose da dire, sulla porta a cui bussare.

Al suo risveglio non trovò nessuno in casa. Né l’uomo che le aveva aperto né la sua amica che viveva con lui. Fece una doccia fredda e attese che qualcuno tornasse. Le scene che aveva appena scorto quella notte le tornavano alla mente. Aveva visto l’immensa città apparire dal tunnel sotterraneo, i ponti, il fiume, le barche, le luci. Aveva udito le urla degli uomini, aveva incontrato i volti coperti delle donne, aveva sentito l’odore della carne rancida, aveva sentito la frase di benvenuto ripetuta cento volte.

Si era risvegliata con le urla che provenivano dalla moschea vicina: una voce possente che trapassava la casa da parte a parte. Si sporse dalla piccola finestra del soggiorno e vide una stanza piena di uomini in fila che si inginocchiavano insieme e con movimenti intermittenti. Nessuno faceva caso a lei, mentre osservava.

La turista non aveva la chiave di casa. Fu forse questo un pretesto che la costrinse a non uscire di casa o forse la delusione di non avere punti di riferimento o l’impressione terribile del primo sguardo alla città. Tentò di leggere ma dopo poco bussarono alla porta.

La ragazza fu sollevata dal suono di un verso d’uccello: il campanello. Si trattava dell’uomo mandato dall’ufficio delle imposte per la lettura del gas. Questi iniziò a parlare nella sua lingua e la ragazza non capì nulla. L’uomo salì con le scarpe ben salde sulle doghe del divano, lesse il contatore e le disse nella sua lingua che il prezzo da pagare era di tre lire.

La turista non capì nulla e sedette sul divano. Anche l’uomo sedette sul divano e con insistenza le chiese dell’acqua o un caffè. Non sapeva cosa dargli e con uno sguardo prorompente lo invitò ad uscire.

Passarono appena poche ore che il campanello suonò di nuovo. Questa volta si trattava di due stranieri: uno anziano e uno giovane. Lei fu risollevata. Quei tipi parlavano un po’ di inglese e quindi la comunicazione tra i tre non fu impossibile. Stabiliti i nomi e le provenienze, l’anziano le raccontò di vivere in quello stesso palazzo sul tetto e di essere passato a giocare a scacchi con l’uomo che le aveva aperto la porta la sera precedente. Era un professore di fisica in pensione della scuola italiana. Aveva la pelle bruciata dal sole, le rughe solcavano ogni angolo del suo volto mentre i capelli bianchissimi cingevano la sua fronte. Il suo sguardo era inquietante quanto il suo udito. Non avendo la capacità di sentire nonché di ascoltare gli altri, proseguiva con voce lenta, intensa e nasale a raccontare dei suoi guai in una città cambiata così tanto negli ultimi trenta anni, così bella prima che costruissero il ponte sulla 26 luglio.

Il ragazzo che accompagnava il professore, notando la difficoltà nella conversazione tra i due, iniziò a raccontare della meschinità e della cornutaggine di molti abitanti della città. Lo faceva in maniera affabile e rassicurante, rassegnata. Sembrava che lui si fosse adeguato perfettamente a quella corruzione completa dei comportamenti e la avesse fatta sua. A conferma di ciò, dalla finestra mostrò alla turista la sua bicicletta incatenata ad un albero. Per la turista era difficile sporgersi in strada per la polvere che le annebbiava lo sguardo e la costringeva a colpi di tosse secca. L’unica domanda che riuscì a porre in quella lunga conversazione fu: “come fai ad andare in giro in bicicletta in questa confusione?”. Il ragazzo ignorò la domanda, nel suo sguardo c’era la sincerità dell’ingenuo che conduce una vita semplice e si adegua a chi lo circonda.

Ma quella domanda, posta senza alcuna malizia, risvegliò in lui un antico sentimento. Il giovane iniziò a parlare della sua vita da selvaggio in Libia. Lì aveva vissuto per qualche mese con degli accattoni, immigrati da paesi stranieri. Sembrava veramente dispiaciuto perché questi suoi compagni non potevano tornare nei loro paesi, le loro famiglie credevano che all’estero vivessero nell’agio poiché inviavano periodicamente denaro. Il giovane sembrava felice della sua vita nel nuovo paese, libero dalle costrizioni di quei libici.

Quando i due andarono via, la turista cadde in un sonno profondo e fu risvegliata solo di sera dallo squillo del telefono. Era un tizio che aveva conosciuto durante il viaggio in aereo e che avrebbe voluto incontrarla, come promesso. I modi dolci e l’accento inglese mostravano chiaramente la sua provenienza. La turista accettò l’incontro. Dopo pochi minuti un egiziano alto, sorridente, dai capelli scurissimi si presentò alla porta con una busta nera che raccoglieva lattine di birra. Fu rassicurata. Il tizio parlava un inglese perfetto, viveva a Maadi[1] e lavorava per la nota compagnia telefonica Etisalat. Manteneva uno sguardo dolce ma forte. Sforzava molto il suo accento che alle orecchie della turista, abituata allo stridente americano, riproponeva un suono familiare. L’uomo era un kharteia. Si tratta di una categoria di egiziani che trascorrono le loro giornate con gli stranieri anche solo per praticare il loro inglese. Spesso frequentano birrerie quali l’Horreia[2] o Stella[3]. Molte volte sono artisti, pittori, registi. Come loro, il tizio amava la birra e il vino, passava ore a chiacchierare con gli stranieri, fonte di sicuro guadagno, se non economico, spirituale. Si dedicava nel tempo libero a suonare l’oud e il nai. Diceva di averne abbastanza del suo paese di origine e di volersi trasferire. Diceva di trovare liberazione solo nell’alcol che ogni notte sfigurava il suo volto.

Alla fine della lunga discussione, ritornò l’uomo che le aveva aperto la porta. Dai suoi occhi traspariva una certa fatica nel muoversi tra le strade e le macchine di quella città enorme. L’uomo portò la notizia del mancato arrivo della coinquilina, trattenuta al mare per motivi non meglio precisati.

Quella informazione sommaria, presentata dall’uomo che la notte prima era avvolto in un lenzuolo, rafforzò la prima vaga decisione della donna di non muoversi da casa. E così la turista non volle uscire, neppure per un attimo. Le visite continue la riempivano di impressioni che raccoglieva come immagini prese da lunghe passeggiate. La turista e il kharteia dormirono insieme e trascorsero una notte di pace.

L’indomani la turista si svegliò da sola. Seduta a bere un caffè, aprì la porta a una donna, metà egiziana metà francese, vicina di casa. Aveva il labbro inferiore sfigurato, una grossa cicatrice sul petto ed era soffocata in un’intensa tosse secca. La donna esordì dicendo che chiunque vivesse in quella città aveva problemi da risolvere. Con piccole risa interrotte da una voce stridula, prese a lamentarsi di tutto. Riconosceva che solo l’illusione di avere un po’ di denaro la teneva ferma lì. Le diecimila lire al mese, guadagnate parlando alla radio francese internazionale, la rendevano ricca. “In Italia non lavorerei neppure, aggiunse come per giustificarsi. Basta solo non ammalarsi. Sei mai entrata in un ospedale di questo paese?”, chiese provocatoriamente. Ripeteva “diecimila” in continuazione, aggiungendo la conversione in euro. Non considerava i cambi ufficiali ma preferiva il rapporto di una lira un euro, che corrispondeva veramente al potere di acquisto che sperimentava ogni giorno. In euro, il suo stipendio corrispondeva ad una somma non alta che le avrebbe permesso di vivere appena decorosamente, così come umile e puntellata di privazioni era la vita dei tanti che in questo paese guadagnavano tra le duecento e le mille lire al mese. Il suo cambio fittizio era del tutto privo di relazioni con il reale rapporto tra le due monete. Una lira corrispondeva infatti solo a poco più di dieci centesimi di euro.

Era ricca, ma solo per una perversa regola monetaria. Questa ricchezza collegata ad un’interpretazione personale della valuta, era rafforzata da una legge sugli affitti bloccati. In vigore dagli anni 0ttanta, le permetteva di pagare appena 18 lire al mese il suo appartamento. E nessuno avrebbe potuto aumentare quell’importo.

Il grido delle moschee nei pressi risvegliò la turista da un solido tepore. Mandò via la vicina con una scusa e iniziò a pensare ai luoghi magnifici della città che le avevano raccontato i suoi amici o che aveva visto in foto qua e là. Ma si sentiva stranamente libera da qualsiasi mania ossessiva di incatenare visite alle meraviglie.

Vide di nuovo entrare l’uomo che le aveva aperto la porta con due tipi. Il compagno di casa della sua ospite assente aveva forse inteso l’intenzione della turista di non uscire di casa. Per caso o intenzionalmente fece salire due amici che di sicuro avrebbero potuto interessarle. Ahmad e Meged erano il primo esperto in arte islamica e il secondo storico del sufismo. Ahmed condusse la ragazza in una sorta di viaggio magico tra le strade macchiate di sangue al tempo dell’impero, nei cortili delle moschee, nei cunicoli delle antiche tombe, nei palazzi mamelucchi, nelle calligrafie, negli intarsi, negli antichissimi bagni pubblici, nei parchi da cui si avvistano i tetti delle case e l’appuntita cittadella, nelle barche che viaggiano lungo il fiume, tra le isole verde intenso, nei mercati profumati, nei cunicoli, nei grigi mausolei, nei frastuoni dei bar raccolti tra il fumo e il gioco degli uomini.

La turista fu ammirata da questo racconto e visse la città per un momento. Poi Meged continuò parlando dei mawlid[4] dei sufi, soprattutto di quello di Tanta[5]. Diceva che si svolgono ai lati delle moschee, raccontava dell’invasamento, dei coltelli conficcati nel corpo, delle danze lente, degli occhi diabolici di uomini storpi, dei canti e dei suoni di strumenti a corde, di flauti o tamburi, degli uomini addormentati ai lati delle grandi moschee e nei pressi delle colonne, del canto degli uccelli che volano da una colonna all’altra, della pace del vino e del fumo.

All’alba del terzo giorno, ormai quasi alla fine del suo viaggio inusuale, la turista sentì di nuovo la voce provenire dalla moschea per la preghiera. Osservò la scritta che invocava dio sul frigorifero del soggiorno e si soffermò a guardare il velo nero che copriva quasi completamente il volto di alcune donne. Con la pesante valigia sulle spalle, scese le scale anguste, l’aria calda le ravvivò il volto. Dal finestrino scorse le uniche immagini di una città che non aveva visitato. L’isola al centro del fiume, i barconi, la grande piazza, l’alta torre, le porte e le mura. Partì.

Giuseppe Acconcia

[1] Quartiere residenziale lungo il corso del Nilo.

[2] In arabo vuol dire Libertà, questa birreria si trova nel centro storico (Westel Balad) in Piazza Falaki.

[3] Questa piccola birreria si trova nel centro storico (Westel Balad) in Hoda Sharaawy. Stella è anche il nome della più conosciuta birra egiziana.

[4] In arabo indica una festa religiosa in onore della figura a cui la moschea è dedicata.

[5] Il mawlid di Tanta è il più grande in Egitto. Si tiene nella prima settimana di ottobre sul Delta del Nilo nella cittadina di Tanta ad un’ora e mezza circa dal Cairo.

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