Ecco cos’erano quelle onde, quelle sciabolate d’acqua che andavano a morire lungo i fianchi cocciuti della solida imbarcazione adibita a trasporto pubblico. Le osservava dal bordo del vaporetto e finalmente le riconosceva, onda dopo onda, ribollire infinito che si diffondeva nell’invisibilità della notte lagunare. Le onde erano domande, continui e ostinati quesiti che si frangevano contro la lievità del suo agire: operare continue e reciproche biopsie al cuore dell’altro? Farlo con testarda lucida determinazione? Rimettersi in gioco, nudi davanti ad uno specchio che riflette l’insostenibile e stanca immagine del tentatore, un’anima un tempo dannata che tenta di raggiungere un raro e improbabile stato di sospensione? E giú ad ascoltare il respiro del motore, il suo ansimare nell’infrangerle evitando il coagulo, sottraendosi così all’amore che più non basta, il triste viatico che conduce all’affetto.
Il garage era uno scrigno che custodiva il prezioso silenzio delle decine di auto immobili nel loro sonno meccanico. Accese il motore impostando il navigatore verso una destinazione indefinita, così come la sua volontà di raggiungerla. Brentonico un’ora e cinquantaquattro minuti pedaggi obbligatori, recitò una voce asettica dopo aver agganciato il segnale del satellite che silenzioso solcava il cielo stellato. Si sentiva spaesato, svogliato, privo della magia che gli permetteva il lusso dell’eccitazione. Accese la radio sintonizzandola su un canale a caso. Da molti anni aveva rinunciato alla registrazione delle playlists da viaggio, appartenevano al passato che a sua volta apparteneva allo scorrere del tempo, un meccanismo che aveva la facoltà di cambiare le cose e le persone rendendole a volte ridicole, capaci di trasformarsi in macchiette intagliate nel legno, proprio come quei pupazzetti che compaiono a braccetto negli orologi a cucù. Si spalanca la porticina, ed eccoli apparire rigidi e sorridenti lungo il breve percorso che li trasporta meccanicamente dall’ombra alla luce, per poi riportarli al buio nel giro di qualche rintocco, fino alla prossima apparizione. Quante volte si era spalancata quella porticina, quante volte aveva passeggiato a fianco della sua consorte nella luce apparente per ripiombare poi nella stasi oscura di un matrimonio agganciato ad un movimento a tempo.
Durante la muta implosione del suo rapporto di coppia aveva conosciuto Marta. Aveva impiegato mesi prima di allungare la mano stringendo saldamente l’appiglio che lei gli offriva. Marta era riuscita ad impedire la caduta che lo avrebbe irrimediabilmente lasciato inerte, chiuso tra le insormontabili mura del quotidiano. La loro era stata una storia adulta, come può viverla solo chi ha bruciato tutti i pellets della passione giovanile e continua a riscaldarsi con le poche braci che ancora ardono sotto la cenere. Un rapporto dispiegatosi gradualmente tra mail e chat, nella calma paziente di un’età che sa mantenere la memoria degli errori. Un legame privo di eccessi, nessuna follia, nessun comportamento sopra le righe. Tra loro si dipanava lento un lungo percorso di consapevolezza e affinità di pensiero nutrito da furiosi scontri carnali che permettevano a due corpi oramai privi di gioventù di fondersi privando il tempo delle sue regole.
Il retrovisore rifletteva l’immagine dei suoi stanchi lineamenti, mentre un lieve sorriso riportava in vita l’espressione oramai relegata nel passato. Ricordava perfettamente quanto avevano sperimentato in tutti gli anni trascorsi nella penombra non svelata ma nei suoi pensieri non c’era compiacimento né sottile piacere. Aveva catalogato quell’esperienza, giunta oramai al quinto anno di vita, come improvvisa ed ultima sorprendente performance. Viveva questa storia con estrema e inquietante tranquillità, quasi fosse altro da sé. Riusciva agevolmente ad entrare ed uscire dalla sua stessa vita conservandone un’altra per certi aspetti piacevole, a volte eccitante, a tratti parallela ma sempre e comunque normale.
Mentre si avvicinava all’albergo nel quale Marta alloggiava, sentiva minaccioso il rumore delle onde evitate in Laguna. Stavano per abbattersi sulle fiancate dell’auto in corsa, mandando in frantumi i finestrini e spazzando via il tepore della falsa estraneità nella quale si era avvolto. Tutto quel tempo gettato a marcire tra le sbarre di un dialogo a senso unico, sordo alle domande che giungevano chiare: operare continue e reciproche biopsie al cuore dell’altro? Farlo con testarda lucida determinazione? Rimettersi in gioco… amare? Si rese conto che stava nuovamente dondolando sull’orlo dello strapiombo, non il dirupo dell’affetto ma la vertigine del confronto e della scelta. Quella donna che aveva riempito i vuoti del suo costante malessere, della sua perniciosa insoddisfazione, la persona alla quale stava confessando la sua rinuncia al sogno, la femmina che ancora insisteva nel serbare lo sguardo acceso dalla passione, ora lo stava aspettando per smuovere con la stretta di un’ennesima notte la sua crescente apatia nei confronti della vita che, a sua stessa insaputa, si era arresa.
Si fermò per un caffè nell’ultima stazione di servizio prima dell’uscita autostradale, appoggiato al banco del bar estrasse il cellulare e con sospesa passione sfiorò delicatamente il polpastrello sull’icona dei messaggi, raccolse con il cucchiaino lo zucchero rimasto sul fondo della tazzina e iniziò a digitare.
Mirco Salvadori (Venezia)
Foto di copertina: Canal Grande visto dall’Istituto Tedesco (ph. Diana Marrone)