Alice, artista

 La tua storia in dieci righe.

Sono nata in maggio. Da bambina leggevo molto, ho fatto bellissimi viaggi in macchina con i miei genitori, giocavo a calcio in cortile e avrei voluto un fratello o una sorella. Poi a un certo punto i miei si sono separati e sono cresciuta con mia madre. Durante gli anni del liceo mi sentivo un marziano, mi piaceva studiare e avevo un mio ritmo, ma non ho mai legato troppo con i miei compagni: con loro mi mancava qualcosa, che ho avuto invece la fortuna di trovare quando ho conosciuto quelli che sono ancora oggi alcuni tra i miei migliori amici. Condividevamo un mondo un po’ letterario e molti interessi che ci hanno salvato dalla noia di una città di provincia: da Parma infatti per un motivo o per l’altro ce ne siamo poi andati tutti. Milano è stata la città in cui ho iniziato l’università e a un certo punto ho preso casa. Bologna la città in cui, pur senza mai abitarci, l’università l’ho finita, laureandomi in filosofia. Parigi la mia città d’elezione, quella delle esplorazioni dei vent’anni, degli incontri che allargano il campo, dei piaceri solitari. In quegli anni ero sempre in giro, il più possibile in viaggio, inseguivo i miei interessi con un’energia in parte inconsapevole ma in realtà molto determinata, e a un certo punto guardare le cose fatte dagli altri non mi è bastato più.

I mezzi a disposizione degli artisti spesso sono scarsi, ma gli artisti amano le limitazioni. Come te la sei cavata nell’arco della tua carriera, e in che modo le residenze sono state importanti per il tuo lavoro?

Che gli artisti amino le limitazioni è vero, ma credo che questo riguardi più le limitazioni concettuali, le coordinate che uno si impone da solo per ragionare, per giocare intellettualmente, o per mettere le cose in una certa prospettiva, che non le limitazioni strettamente economiche. La monumentalità, o l’intrattenimento e il rumore fini a sé stessi non mi hanno mai interessato, e resto fedele idealmente a una certa ecologia dei mezzi, che parte da quello che è necessario, ‘a porre’, lasciando anche molto spazio al vuoto e al silenzio. Ma questo non toglie che ogni opera ha una sua scala, e quindi esigenze di produzione diverse, e in alcuni casi dover calcolare il centesimo per riuscire a produrla è soltanto una gran fatica, che non aggiunge nulla al pensiero. Quanto alle residenze d’artista, trovo che siano importanti perché permettono uno stare altrove prolungato nel tempo di natura molto diversa da quella del viaggio. E poi perché a volte si fanno incontri belli, che portano a cose nuove.

 

 

Quale posto hai attribuito alla scrittura e alle parole (e al fatto di usare le parole come oggetti insieme a i loro significati) nella tua pratica artistica?

In qualsiasi sua declinazione, ho sempre pensato al mio lavoro come a una forma di scrittura: parole, immagini, oggetti, pause, spazi vuoti e cose lasciate fuori campo, che insieme, attraverso il loro equilibrio, o semplicemente per il fatto di essere accostate l’una con l’altra, producono un senso. Mi piacciono le singole parole, scultoree e sintetiche. Mi interessa il linguaggio per le sue strutture, l’articolazione degli elementi, la latente ambiguità, il potenziale e costante margine di fraintendimento. Mi piacciono le lingue straniere, perché posso capirle sì, ma fino a un certo punto, e perché quando le parli la tua voce cambia. Gli oggetti che realizzo sono per me come le parole di un dizionario, mentre i film sono frammenti di storie, con una relazione con il tempo molto più precisa e determinante.

 

Parlami del tuo nuovo progetto: A Garden by the Sea. Questa residenza pensata da un’artista (nonché piattaforma di produzione artistica) è un antidoto alle attuali impostazioni delle residenze d’artista, o è una strategia escapista per guardare oltre il solito modulo di accoglienza basato sulle grandi città per produrre e diffondere l’arte?

O riguarda più la natura, i suoi elementi, e le arti in relazione al paesaggio?

Questo progetto sintetizza in sé due piaceri diversi, entrambi molto forti, ed entrambi per me profondamente necessari: la possibilità di stare a contatto con la natura vicino al mare in alcuni periodi dell’anno (in particolare d’estate), e il piacere di condividere questa dimensione extra-domestica con altre persone. La sintesi la vedo con maggiore chiarezza ora, ma il disegno si è formato in realtà in un lungo arco di tempo attraverso diversi passaggi, non tutti sempre espliciti, non sempre così lineari: in ogni caso, il risultato è che lo scorso agosto, dopo una notte passata a setacciare furiosamente annunci, ho infine trovato questo piccolo giardino di 230 mq a picco sul mare a Tramonti, dove comincia il Parco Nazionale delle Cinque Terre. Comprarlo è stato il primo passo per un radicamento. Al momento non c’è altro che un capanno degli attrezzi un po’ arrugginito, un bellissimo fico, erba alta e da qualche settimana l’allaccio all’acqua potabile. Tutto il resto è da fare, da disegnare, da inventare, da trasportare a spalla su per 198 gradini e da costruire: penso sia questo a rendere il giardino stesso un progetto ancora prima che vi accada qualsiasi altra cosa. Un’opzione che avevo era fare le cose da sola, o con l’aiuto di qualche amico ogni tanto, mettendoci magari tanto tempo, e mano a mano che avessi avuto i soldi per farle. Ho invece scelto di lanciare una campagna di crowdfunding, e coinvolgere il più persone possibile sin dall’inizio: amici, amici di amici, qualche collezionista, conoscenti affettuosi, parenti supporters, così da poter fare alcuni lavori subito, già quest’estate, e rendere lo spazio disponibile per tutti in un tempo molto più veloce. La risposta è stata straordinariamente positiva: la campagna, che si è chiusa qualche giorno fa, ha addirittura superato l’obbiettivo che mi ero prefissata, raggiungendo un 145% di contributi grazie a ben 108 sostenitori. A ciascuno di loro, a prescindere dal contributo che hanno versato e dal benefit scelto in cambio, sta ora di scegliere che tipo di coinvolgimento vogliono avere rispetto al progetto: può essere che il piacere consista semplicemente nel sostenere con affetto un’idea da lontano, oppure nel venire una volta a vedere com’è il giardino, o magari invece nel partecipare anche fisicamente ai lavori e passarci poi regolarmente un pò di tempo. Queste variabili, che ovviamente non posso conoscere né prevedere, sono parte del gioco che abbiamo scelto di condividere insieme, e contribuiranno anche inevitabilmente ad orientarlo. Intanto da metà luglio il primo summer camp in modalità ultra-spartana è aperto: poi con calma nel tempo mi piacerebbe arrivare ad ospitare piccole cose mirate come workshops o micro-live set, ma ora è senz’altro troppo presto per parlarne.

Nel considerare Milano la tua città attuale, o comunque la tua base principale, cosa ti ha dato, e cosa invece le hai dato tu?

La tua domanda è al passato, ma ti rispondo al presente.. Pur senza esserci nata, ho passato a Milano ormai quasi metà della mia vita, è la città in cui ho casa e studio, dove vive mia madre e molti dei miei più cari amici. Rimane una buona base, se sai che da lì ti puoi muovere. Ci sono periodi in cui ci sto molto bene, ho i miei percorsi affettivi e un buon equilibrio tra il lavoro in studio e le cose da fare e da vedere; altri in cui mi sembra davvero troppo piccola e un po’ claustrofobica, perché tutti conoscono tutti, e perché mancano l’acqua, i ponti, e le aperture di orizzonte. Cosa ho dato io a Milano? Ho seguito con passione festival di cinema e concerti.

I tuoi cibi e i tuoi drink preferiti?

Mi piace quasi tutto, ma soprattutto adoro essere ospite di qualcuno che ama cucinare. Drink dell’estate: spritz bianco.

 

E la tua musica e il tuo libro(i) preferiti?

Al mattino a casa ascolto soprattutto indie-folk, gruppi piccoli dai nomi strani che subito dopo dimentico, e i mixtapes di una webzine francese a cui sono molto affezionata. Quando sono in giro invece dipende dall’umore e dal contesto.. il funky però proprio non lo reggo! Libri preferiti? Quelli che stanno in bilico tra il saggio, l’autobiografia e il frammento di memoria. E tra i romanzi, i racconti di formazione.

Un talento che hai, e uno che ti manca.

Se sono in vena, so giocare con le parole. E credo di sapere osservare.

Quello che mi manca invece è una memoria enciclopedica.

Cosa hai imparato dalla vita?

Quello che ho imparato.

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