Flavio Favelli, artista

Fino al 14 giugno l’artista italiano Flavio Favelli (Firenze, 1967), espone per la prima volta a Istanbul. La mostra (Grape Juice, a cura di Vittorio Urbani) è allestita nella Main Hall della Galata Rum Okulu, l’antica scuola greca di Galata (anche una delle principali sedi dell’ultima Biennale d’Arte Contemporanea di Istanbul, avvenuta nel mentre i tumulti di Gezi Park infuriavano).

La mostra è il frutto di un periodo di studio e di lavoro che l’artista ha svolto nella città turca, essendo stato invitato, per la terza edizione del ciclo Anteprima – un programma internazionale prodotto da AlbumArte, associzione culturale di Roma presieduta da Cristina Cobianchi e diretta da Maria Rosa Sossai – a partecipare a un progetto di residenza d’artista a Palazzo Venezia, Residenza a Istanbul dell’Ambasciatore d’Italia in Turchia, Gianpaolo Scarante.

La riflessione di Favelli è inizialmente partita dall’immagine dell’etichetta di una vecchia lattina di succo d’uva. Questo succo, prodotto in America e di proprietà della Coca Cola Company, si chiamava Hi-C. La stella bianca e la lettera “C” stampata sull’etichetta hanno ricordato a Favelli la bandiera turca. Da questa immagine emblematica è nata un’opera: Grape Juice, che ha dato il titolo alla mostra, che consiste in quattro progetti distinti. Nella nicchia-teatro l’artista ha esposto su un tavolino un oggetto da lui definito “struggente”: una bottiglia di Coca Cola emessa solo per la Turchia, che ha trovato in Italia. Un semplice e apparentemente banale oggetto, ma che contiene suggestioni e significati multipli. Invitato nel 2013 a rappresentare l’Italia alla Biennale di Venezia, ha avuto l’occasione di esporre in tanti altri importanti contesti. 
Per Venezia ha esposto un’opera con dei forti riferimenti nazionali, ma forse anche un fantasma. D’altra parte, mi ha detto, ha creduto di essere stato invitato proprio per questo, perché il curatore ha messo a fuoco vari temi fra cui la questione autobiografia e l’immaginario collettivo. A proposito della preparazione della mostra veneziana, proprio nel momento in cui il padiglione italiano si dedicava al crowdfoundign, Favelli mi aveva svelato: “sarebbe interessante avere EL AL come sponsor, la linea aerea di Israele. Israele è un paese infinito e con delle questioni difficili. E’ la sabbia che consuma gli ingranaggi dell’Occidente e dell’Oriente, è la terra delle proiezioni e nevrosi del nostro tempo. La linea aerea di un paese è parte della sua speranza e della sua idea. E poi amo i loghi delle linee aeree, soprattutto quelli immutati nel tempo.”

Scultura, arte funzionale, performance: quale di questi segmenti espressivi ti consente meglio di lavorare sulla memoria e soprattutto sui luoghi sociali che attraversi, prima ancora che sulle geografie?
 

Debbo riportare tutto ad una questione più personale, più privata. Dici che lavoro sulla memoria, un termine denso e un po’ pesante. Voglio subito chiarire che è la mia memoria personale. Ricostruisco il mio passato perché è un pozzo senza fondo, un universo  diviso in tre: Inferno, Purgatorio e Paradiso con un grande ascensore che va e viene da questi tre piani. Sono su questo ascensore da sempre, prima  perché era il mio presente e ora,  che continuo il mio salire e scendere con le mie immagini, lo tento di fermare con le mie opere.

Non trovo una grande differenza fra queste tre … discipline. A volte ho eseguito un’azione dentro una mia opera che è funzionale al mio desiderio. La funzione in arte per me fa rima solo con desiderio e immagine.



Quante mostre hai fatto nella tua carriera? Siamo a oltre 40 tra musei, gallerie, fiere e biennali, workshop e residenze? A differenza di molti artisti che ho seguito, il tuo è un registro personalissimo: da grandi gallerie ai grandi musei, fino all’insegnamento ed ai luoghi non convenzionalmente deputati all’arte. A spingerti è una passione per il pubblico, arguisco…


In una presentazione della mia opera in un Museo italiano, il suo direttore mi chiese:  ma non hai fatto un po’ troppe cose, troppe mostre?

Ho risposto: l’ultima opera è sempre la più bella.

Il pubblico non esiste per la verità, nel senso che è una finta presenza, è un concetto. L’opera o l’idea deve uscire fuori, in un luogo pubblico anche se non c’è nessun spettatore. Produco molto perché ho molte visioni. Una volta feci una conferenza e uno studente mi chiese perché nelle foto di mie opere ambientali che mostravo non c’era mai il pubblico, delle persone. Risposi che era un’ottima osservazione e che nemmeno io me ne ero reso conto. Alla fine la mia arte è ideale, anche quando ho fatto la sala per i funerali laici al Cimitero Monumentale di Bologna è una sala ideale, la sua funzionalità è solo una scusa. Un po’ come la tomba dei Faraoni dell’Antico Egitto, le cose presenti, dal carro di battaglia, al letto, agli oggetti privati in realtà non servivano a nulla, era una questione rituale, simbolica, ideale.


Vieni da anni fecondi e di sovente hai attraversato linguaggi che di solito altri artisti non sfiorano neanche, nutrendoti di quello che ha avuto da offrire la Bologna di venti anni fa, dal Link al teatro. Ci descrivi cosa fai oggi per nutrire la tua curiosità onnivora rispetto a ieri, prediligendo la vita in un piccolo centro sugli Appennini? Quali le tue mete fuori dal tuo studio?

Da tredici anni abito sull’Appennino, e posso dire che la città non mi manca.

Quando mi sono avvicinato all’arte ho scoperto la ritmicità e l’abitudine del lavoro che amo più di ogni altra cosa. Non vedo la TV e non vado al cinema da una decina di anni, lavoro e basta. Lavorare vuole dire oltre a fare manualmente le opere, leggere, scrivere e disegnare. Sto scrivendo molto, un giorno mi piacerebbe pubblicare qualcosa sul rapporto fra la mia arte e quella degli altri.

Non ho mete particolari, in estate viaggio alla ricerca di cose, oggetti. In questi anni ho preso molte cose. Ricordo con nitidezza una ceramica a Caltagirone, delle lattine di birra Crystal a l’Havana e dei gettoni per le barriere dell’entrata della metro di Nuova Delhi. Alla fine posso dire che le mie mete sono gli oggetti che trovo.

Ultimamente c’è una grande cospirazione della critica d’arte contro gli oggetti. L’arte pubblica e relazionale oramai la fanno da padrone. Gli oggetti rimangono lì, immobili, imperscrutabili, impassibili, come dice Mario Trevi, permangono, si tramandano.

La tua arte si presta molto ad installazioni site specific e, sono convinta, anche ad una certa affezione, per non dire morbosità, di collezionisti, perché sfidi la natura stessa del possedere dato che la tua creatività rielabora e shakera come un mix house, quindi frantuma gli oggetti e li fa diventare altro.

Cosa cercano di più da te e su cosa punterai nell’immediato futuro, in particolare per i prossimi appuntamenti veneziani, per ripresentare il tuo linguaggio? Che spazio, in particolare, darai al colore prima ancora che alla forma?


Oggi è difficile trovare un collezionista libero e come dici morboso. In cima ci sono sempre i conti, l’affare. Il vero morbo è l’occhio al portafoglio. Beh, devo dire che la serie Archivio (la cornice in pastiglia col mosaico di vetro nero) è fortunata e anche i collage di francobolli e carte di cioccolatini.

Tranne poche eccezioni nessuno chiede nulla sul significato dell’opera e sul perché. E’ tutto superficiale, è tutto una scommessa. Più che il colore e la forma direi che mi affido all’unica area che ha senso per me: la psiche.

ho spesso osservato che il contenuto delle opere d’arte esercita su di me un’attrazione più forte che non le loro qualità formali e tecniche… (S. Freud ,  Il Mosè di Michelangelo , 1914). Beh, anche a me capita così.

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