Gabriele, Londra e Salò

 

Cara Diana,

Ti scrivo dalla cucina di casa mia al Lago di Garda, a poco più di due mesi dalla conclusione dell’ormai passato pellegrinaggio sulla Via Francigena.

Un fatiscente ricordo reduce da mille racconti tra svariati banchetti natalizi e annuali appuntamenti familiari, con morali sottratte alle proprie esperienze: svanisce come il lampo in torpida nebbia. E alla fine della forte pronuncia anche il suo eco si lascia dissolvere nella gentil brezza, non toccata e accogliente. Una brezza che per il suo percorso continua imparando e gioendo, connettendosi con l’uggiosa nuvola, ascoltando l’irrompente fulmine di primavera. Inciampando nello struggente tornado che non perdona, ma vuole solo capire. Il vento come compagno onnipresente, in tutta la sua calma ed irruenza. Come medicina. Come filosofia. Come metafora. Come esempio. Perché il vento mi sia rimasto cosi’ impresso nel ricordo del viaggio, non saprei. So che i motivi che mi hanno spinto a intraprendere l’esperienza, come fulmini, si sono riappacificati ed uniti alla brezza pellegrina. Adesso i motivi, I bisogni che escogiterei per giustificare qualsiasi mia decisione sarebbero diversi da quelli di due mesi fa. 

Sono uno studente di Contemporary Media Studies alla University of Westminster a Londra. Terzo ed ultimo anno, con la tesi che e’ ormai un’impronta nel percorso universitario. E’ il settimo anno che trascorro all’estero: nel 2010, su offerta dei miei genitori, ho accettato di tagliare a meta’ il rimanente anno ‘scientificamente’ scolastico nella tranquilla ed allora opprimente Salo’, e finire il Liceo altrove. So… England I’m coming.

Un salto nel vuoto che, a ripensarci ogni volta, non può far altro che rafforzarmi nei cosiddetti momenti di difficoltà. Senza che me ne accorsi era il 2012, la famigerata parola liceo si dissolve in quel che pensavo insormontabile.  Scalai e riuscii… Pronto all’infinito ed oltre, adesso. 

Il desiderio, o meglio, una pozione magica fra desiderio e bisogno di rompere quei cosi’ proclamati, vezzeggiati, venerati ed usurpati (dalla realtà dei fatti) doveri, amoreggiava con la fantasia di fare esperienze del quarto – se non pure quinto – tipo; esperienze che a lungo andare verrebbero considerate irrational – e forse quest ultimo punto e’ vero. 

Passi ben definiti, linee guida pronte a sfuocare e circoscrivere un campo visivo che offre un infinita’ d’ostacoli e possibilità, bellezze ed orrori, colori e partite a scacchi le quali perderemo, o vinceremo, ma sempre con quel qualcosa di guadagnato. Perciò… Click! E con quel click hai deciso che ostacoli e possibilità vuoi che ti si presentino nella tua fotografia, le bellezze da raccontare e gli orrori da abusare vigliaccamente e seppellire in mari di stupidaggini. 

Puoi ancora scegliere come colorare quella scacchiera; attenzione pero’, bianco e nero non sono ammessi. Ovvio ma ricordiamocelo ancora una volta: scegli chi vuoi essere. Non vorresti trovarti nella situazione del pedone mangiato da un cavallo:  mossa sbagliata, niente capo A. 

Insomma… quella era la visione che mi ero fatto qualche anno fa. Sostanzialmente, ‘fai esattamente il contrario – o per lo meno il diverso – di quello che ti viene suggerito di fare. E con piccoli aggiustamenti, quel pensiero è rimasto… ‘Fai quello che ti fa star bene con te e con gli altri’. Ma chi sa che vuol dire, dopo tutto sono solo un cittadino del mondo appena schiusosi dal guscio scolastico. L’idea di sapere cosa andrei a fare per i prossimi anni, dover gestire l’irrequieta voglia di muoversi liberamente, cioè: il poter fare quel che sia senza un pregiudizio o un’idea ben chiara di cosa significhi senza aver provato in prima persona, beh, e’ un qualcosa di troppo invitante, e motivante, per abbandonarlo a qualcosa che incalza, per quanto lontanamente, un’essenza di linearità ed etica sociale. Il mio campo visivo non si chiude e, soprattutto, non mi limita, anzi. Inizia un capitolo che giorno per giorno si arricchisce. E mi arricchisce. Il pensiero di intraprendere l’università e’ solo in fondo alla lista, ed e’ quella nera. Certo, varie application forms compilate; scrutinato un paio di corsi che potrebbero interessarmi per un chissà quando: coscienza in pace. Ora, quei momenti difficili si limitano a scegliere di che realtà desidero nutrire quell’interna voce onnipresente. La testa non pensa, il corpo reagisce, l’animo guida. E tutto va bene. 

Inizia cosi’ un percorso nel mondo dell’ospitalità dove, tra vari licenziamenti e dibattiti poco intellettuali con una serie di managers e voci grosse, vagheggio tra Londra e Australia, dove decido di spendere  il secondo Anno Sabbatico. Certo, rimangono le applicazioni per i corsi… Diciamo per il corso: ormai attendo la risposta dell’ultimo, gli altri mi hanno rimbalzato. Felice cosi’. Scoprirei qualche mese dopo che quest’ultimo mi avrebbe accettato. Ma ero già balzato Down Under, aka Australia,  quando la notizia arrivò e per quell’anno l’università non sfiora il più remoto pensiero. 

Vado e torno. Un anno vola, come tutto il resto, e un pacco d’esperienze, incontri e quant’altro mi riaccompagna in Europe. Ritorno con il mio OZ dream avverato. Avverato a furia di Sollevare, Trasportare, Congelare, Tirar Fuori e, infine, caricare carcasse di pecore ed agnelli, con carcasse di cervo per rompere la ciclica routine. Cinque mesi. Freezers di misura industria familiare (solo 2000-2400 capi al giorno rispetto ai 7000 dell’altro macello locale); cinque mesi di sollevare, trasportare, congelare, tirar fuori e, in fine, caricare. No, niente trauma e niente di troppo macabro: mi son salvato dalla famigerata Killer Room.. cazzo la Killer Room… coprendomi gli occhi quando ci hanno dolcemente spiegato come funziona il mattatoio con un riconciliante tour dimostrativo… Bisogna fare amicizia con i propri colleghi in qualche modo. 

Le varie battute vaganti di taglia teste e pesi fuori misura non le capisco; ho una personalità sensibile che devo farci. Il peggio arrivava quando i camion, che avremmo ricaricato quel pomeriggio, giungevano a destinazione colmi delle povere bestie. Gambe sifule, impossibilitate a sedersi o girarsi, pianti di sofferenza e richieste d’aiuto, appoggiarsi una su l’altra per sostegno, morale e fisico, non era un’opzione. E tanto meno lo era incazzarsi per lo scomodo viaggio. Sguardi con un perché? belante. Scusate, si sono dimenticati di assegnare i posti. E di che mi lamento, il mio sguardo di simpatizzante omertà (ovina) morale non le ha di certo alleviate dagli 800kms scomodamente appena percorsi. Comunque sia, soldini guadagnati e pronti a rientrare in circolazione nella fiorente economia Australiana, riciclati principalmente in petrolio, alte wages di meccanici e birra. Devo giocare la mia parte nella sana segregazione Aborigena. 1-0 per il governo Australiano, non hanno dovuto neanche sterminarli tutti. Nei seguenti due mesi guiderò la bellezza di oltre ventimila chilometri, dal paesino di Esperance nel Southwestern Australia, all the way around the coastline to Darwin, popping into the centre in the world-renowned Alice Springs, a few hundreds kilometers away from Ayers Rock, aka Uluru, to then drive back out onto the East coast and down to where it all started a year ago, Melbourne (il piccolo discorso descrittivo che, più o meno, mi ero preparato). Cosi’ in un viaggio di poco più due mesi, con incontri di ormai chi sa che tipo, mi svergino nella prima delle avventure solitarie. E se si pensa l’inizio di un viaggio interiore… Più che giusta assunzione. Ma, di nuovo, che ne sapevo io. 

Non ho avuto visioni di nessun tipo, ne’ strane o esistenziali, o tanto meno rivelatrici. Percorri un po’ di tempo da solo, giornate dove non fai altro che guidare e star seduto li, in macchina, lo sguardo che come con un libro scorre attraverso paesaggi, reificando tutto ciò per cui si e’ iniziato il road trip. Da solo come volevi. E come se le porte del cielo si aprissero, quei semi che, magari inconsciamente, piantati nel corso del tempo esplodono. Altro che albero di fagiolo. Qua parliamo di prendere tutte le carte in gioco e rimescolarle. E ricominci a giocare, con tanto di scommesse, bluff, azzardi, pericoli e momenti d’attesa e suspense. Alcuni semi sbocciano; alcuni aspettano uno sgelante equinozio. Altri ancora semplicemente la luna giusta o un altro giro della Terra. Da dove viene tutto ciò? Perché adesso? E perché vengono? Cosa cazzo devo decifrare o capire? Chi sono io? Beh, io sono… Ma che domanda è. Ho sempre sostenuto fino a questo momento che… Sei chi sei, punto e a capo. 

Avrei cosi’ abbandonato un senso di leggerezza e gioia, una spontaneità che mi ha tenuto on the edge fino a quel momento. Che mi ha portato a viaggiare l’Australia da solo. Ma, di certo, non a fare il pellegrinaggio. Come ho scritto prima, certi semi aspettano solo il momento giusto. Alcuni riposano, altri hanno bisogno di quella luce. Una riconciliazione con I grossi tabu’. 

Il pellegrinaggio. Il pellegrinaggio e’ stato un vero e proprio cammino. La vera ragione per averlo iniziato sorgeva da una semplice voglia di cambiamento. E come giustamente penserai, tutto deriva da una voglia di cambiare. O per le meno tutte le grandi decisioni. Ero stanco di Londra, oppresso dallo stile di vita, con troppe domande e troppe risposte ormai diventate ovvie. E l’ovvio stanca. Serve a gran poco, almeno penso io. Non mi trovavo più, non sapevo come relazionarmi alle persone; non sapevo come ascoltarle; non sapevo che dire. Sempre in cerca di qualcosa, o meglio, sono a rincorrere qualcosa. Un senso d’accettazione? 

Una frase mi e’ sempre rimasta in testa, viene dal libro On Photography di Susan Sontag: ‘Humankind lingers unregenerately in Plato’s cave, still revealing, its age-old habit, in mere images of the truth’. Il significato lo sto sfogliando lentamente. Certo, l’idea di fondo era ‘Inizio cosi’ e finisco con qualche carico in meno’. Smettere di tentare di capire o dare un significato a tutto quello che è esterno o fuori dalla mia portata. Tentare di capire i perché della gente. Perché una tale divisione interiore ed esteriore. Siamo costantemente presi da noi stessi ma senza reali domande; il colpevole è sempre dietro l’angolo, mai potremmo essere inferiori dei nostri sbagli; la superficialità ci fa da ombra. Leggiamo, guardiamo, parliamo, pensiamo, osserviamo, deduciamo, proviamo e, per fortuna, sbagliamo. Ma dimentichiamo. Chi si fa gli affari propri campa 100 anni, giusto? Ma come li campi? Siamo li a scrutinarci, criticarci, giudicarci, insegnarci a vivere un all’altro/a, incapaci di vedere ed accettare differenze e tanto meno opinioni altrui. Ci auto-blocchiamo, li a crogiolarci nel proprio sugo di prediche. Balle. 

Cosi’ finisce il viaggio ed inizia il cammino. Sentivo un programma alla radio poche settimane fa, caso strano basato a Londra, di questi centri per riabilitazione sociale, per persone che cadono in questa sorta di depressione dove non si riconoscono più in niente, e pur di farsi accettare, si fan tirar sotto; persone come il liquido riflesso di un mosaico. L’uomo che diventa parte di un nulla sociale, di una cerchia di outcast inglobati come comodità. Chi più, chi meno, no?! No. 

L’obbiettivo e motivo scatenante era comunque di liberarmi della sensazione di essere sempre sottoposto a tempi e deadlines. Con il costante retro-pensiero di dover riempire i tempi liberi con qualcosa. Il cambiamento di cui abbisognavo dettava la perdita della concezione temporale per come la viviamo noi. 

Spero non sia troppo, o troppo esagerato.     

 

Tuo,

Gabriele Simonini

 

Tutte le foto sono di Gabriele Simonini

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