Gianni Solla, scrittore

Conosco Gianni Solla da molti anni, lettrice avida del suo blog. E’ un mio concittadino che a differenza di me si è pacificato con la scrittura e con la città creandone un tutt’uno miracoloso: una pratica e una narrativa eccellenti. La sua prosa è un marchio di fabbrica. Una volta abbiamo lavorato insieme su un progetto d’arte, lui ha scritto racconti per writers e abbiamo fatto poesia visiva, nel senso letterale: parole e frasi da appendere in giro in città. Non ho mai dimenticato, anche se il progetto non siamo riusciti a portarlo nelle strade vere. Leggere Solla è tuffarsi in un delirio onirico, in una realtà che supera la realtà stessa. Dove ferocia ed ironia sono talmente ben calibrate che ti chiedi di cosa si sia nutrito il genio che l’ha così’ ben shakerate. Se non ci fosse un Solla al mondo, bisognerebbe inventarlo. E sicuramente, un Solla va tradotto in inglese. Diventerebbe un caso internazionale. Ci penseranno, spero, i suoi prossimi editori. Noi ve lo proponiamo nelle righe che seguono e nella sezione poesie di Slow Words.

La tua vita, se ti va conficcandola in righe asciutte e lancinanti, romantiche insieme, esattamente come ci abitui con la tua prosa

Ci ho messo tempo per conoscermi. Sono stato un estraneo per molto tempo a me stesso. Non ho ricordi continuativi ma frammenti discontinui. In uno sto correndo alla Villa Comunale, mio padre ha il borsello di cuoio e i baffi, ho sei anni, in un altro gioco in uno spiazzo con un Super Santos con scritto il mio nome, nel successivo la prima ragazza che mi lascia e sento un dolore fortissimo alla pancia.

Come e quando sei diventato scrittore? Che idea hai degli agenti letterari e cosa ha significato per te decidere sin da subito per un blog (Hotel Messico) invece che solo “carta” per formare un pubblico di seguaci? 

Ho avuto l’esigenza della scrittura sin da adolescente, ma era solo disordine. Immagino nasca sempre così. Mi ricordo di quaderni pieni di note e lo sforzo per raggiungere una grafia piccolissima al contrario di quella da terza elementare che mi era rimasta. Con il tempo è diventato qualcosa di fisico che andava affrontato come la fame, il sonno, l’emicrania. Non è stata da subito un’idea strutturata, mi importava di scrivere e la mia vanità mi imponeva di essere letto. Aprii il mio blog, uno spazio autogestito, mosso da ormoni e stati d’animo momentanei. Ero in clima di emergenza e qualunque cosa andava bene, poi mi ci sono affezionato. Dico sempre che è stato il mio laboratorio ma anche la mia macelleria. Il passaggio all’editoria è stato indolore, progressivo, ma la scrittura sul web non l’ho mai abbandonata.

Ho un agente, si chiama Corrado, costa molto meno di uno psichiatra e di libri ne capisce molto di più di uno psichiatra. Lo chiamo e mi sta a sentire. Ripeto: lo chiamo e mi sta a sentire. Mi legge nel cuore. Non riuscirò mai a ripagarlo. In generale tutti dovrebbero avere un agente, anche chi non scrive, non canta e robe così. Intendo i benzinai, i commercialisti, i salumieri.

La città che abiti forse è l’arena ideale per il corpo a corpo con la scrittura/vita? Come va?

Le domande su Napoli sono sempre insidiose. Ci sono nato, non riesco a immaginarmi in un posto diverso. Ma poi, a quelli che sono nati ad Asti glielo chiedono? Boh, avrei scritto storie se anche fossi nato in un altro posto.

Cosa hai dato tu a Napoli, al suo corpo sociale, e cosa lei ha dato a te?

Non ho dato niente a Napoli. Verso le imposte comunali e faccio la raccolta differenziata, ma oltre questo, a un gigante dell’umanità non posso dare niente. Contribuisco ad alimentare il flusso di miseria e bellezza che messe assieme formano la dea bicefala, con due cuori e cento anime che è Napoli. È una città complessa, complicata, in giro si trovano descrizioni molto più efficaci di quanto io riesca a inventarmi.

Qual è un momento che ti ha reso felice, recente o meno?

Ho un figlio, è troppo facile. A ogni modo la felicità è banale e non porta da nessuna parte. Non mi interessa come oggetto narrativo. Non lo è la sua ricerca invece. Come succede nei film americani, è il male a muovere tutto, è lui che fa il primo passo e il compito dell’eroe è di ristabilire gli equilibri. Mi interessa tutto quello che si ferma un momento prima della felicità. Diventa subito noiosa. Parlare di felicità, implica il parlare dell’infelicità, mi sembra che l’approccio dicotomico sia necessario perché dell’una non si puó parlare senza avere mai provato l’altra.

Il tuo piatto e la tua bevanda preferiti?

Fagioli e vino rosso. Dormirmi vicino dopo è impossibile.

Un talento che hai e uno che ti manca

Ho un rapporto migliore con la mia macchinetta del caffè che con mia moglie. So fare il caffè. Penso sia il mio talento. Con il tempo ho sviluppato una certa idiosincrasia con lei, che chiamo Carmela. Sono convinto che il fatto stesso di averle dato un nome le abbia regalato un’anima. L’identità e la coscienza la obbligano a contribuire al lavoro. Conosco i suoi livelli: so quanto fuoco vuole e quanta acqua bisogna metterle. Sono un chirurgo dello zucchero. Ogni volta è una sfida, mentre prendo il barattolo del caffè mi dico: ok, lo faccio bene oppure, lo faccio lungo. È una forma di paranoia minore ma che in casa fa comodo. So anche fare i parcheggi, ma questa è una forma di adattamento al territorio, abito in un vicolo, o impari o non prendi la macchina. Ho suonato la chitarra per molti anni ma non ho quel talento. Sono fermo sempre alle stesse cose. È incredibile. Sicuro, non so suonarla.

Come trovi il tempo (e cosa fai, se ci riesci) per vivere lentamente?

Il mio segreto è il divano. Ho scavato con la schiena nei cuscini anche se mi piace pensare che sia stato lui ad aprirsi per accogliermi. Inoltre la mia non ricerca dell’ottimizzazione, di percorrere la strada più lunga, la più trafficata che poi si è trasformata nella più suggestiva. Mi piace quello che faccio, non voglio farlo più velocemente.

Cosa hai imparato sin qui dalla vita?

Il necessario per uscire di casa e ritornarci senza danni a me e agli altri. Là fuori è tutto sterminato che non saprei nemmeno da dove cominciare a imparare.

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