Giorgio Fontana, scrittore

La tua storia in 10 righe

 

Sono nato nel 1981, cresciuto a Caronno Pertusella — un paese industriale in provincia di Varese ma alle porte di Milano — e ho iniziato a scrivere quando avevo circa sedici, diciassette anni. I primi quattro romanzi li ho buttati. Il quinto è stato il mio esordio, nel 2007. Nel frattempo ho vissuto un anno in Francia e mi sono laureato in Filosofia; poi ho pubblicato altri libri, cambiato diversi lavori, abitato per qualche mese in Irlanda, eccetera. Ora ho trentatré anni, vivo a Milano e pubblico per Sellerio.

 

Che riviste letterarie leggi oltre a quella che hai ideato e che pubblichi tu?

 

Lo Straniero, Inutile, il New Yorker. In realtà leggo più che altro riviste di impegno sociale.

 

Eleanore Rigby è stata una rivista letteraria che pubblicava narrativa e non-fiction, dal taglio piuttosto irriverente e un po’ punk (anche se era confezionata in stile liberty, molto elegantino). La facevo con altri quattro amici, ed è stato davvero un bel periodo: riunioni-fiume con tante birre e sigarette, un sacco di racconti da leggere e fra cui scegliere… Uso il passato perché l’ultimo numero è uscito ufficialmente anni fa, ma non per questo “Eleanore” è definitivamente morta e sepolta. Diciamo che è in fase di congelamento, da cui potrebbe uscire da un momento all’altro.

 

Morte di un uomo felice (Sellerio, Palermo) è l’evasione intelligente dalla biografia e dalla storia insieme per creare un momento magico in cui ritrovarsi come cives; azzardo: è un afflato per nazione. In senso molto concertistico, potrebbe essere una composizione per camere stagne che la storia recente (spesso solo nel nostro paese) abita e che la musica è in grado di sfondare, percorrendole tutte. Hai mai pensato al tuo bellissimo e toccante romanzo come a un libro per formare gli studenti italiani quando lo scrivevi? Perché, se posso, la dedica a tua madre?

 

Comincio dalla fine: la dedica è per mia madre perché, molto semplicemente, le era dovuto. In tutti questi anni ha sempre fatto da contraltare con il suo buon umore al mio naturale pessimismo e alle mie crisi d’ansia.

Per quanto riguarda la prima domanda: no, quando scrivo penso solo a scrivere — e anzi, qualsiasi tentazione di “formare” il mio lettore, sia esso uno studente o una persona adulta, è quanto di più lontano possa esserci dalla mia idea di scrittura. Pensavo e penso sempre soltanto alla storia, ai personaggi, alle esistenze che racconto. Tutto qua.

 

Che tipi di incontri fai quando lavori? Altri scrittori intervistati da questa rivista ci parlano della solitudine dello scrittore. Condividi anche tu, che fai tanta ricerca per i tuoi libri?

 

Dipende. “Babele 56” è stato scritto ascoltando tantissime persone e racconta la storia di otto (anzi, di nove — anzi, di qualcuna di più) di loro. Questo libro invece è nato quasi per intero nella solitudine più assoluta, come del resto gli altri. Sono assolutamente convinto che uno scrittore debba come prima cosa imparare l’arte di rimanere da solo e in disparte. Poi naturalmente ci sono fasi di ricerca che implicano il contatto con gli altri — interviste, discussioni, e così via. Ma il 99% del lavoro è in una stanza, senza nessuno intorno.

 

Cosa fa la società per te?

 

Mi dà un posto dove stare e insieme definisce i miei spazi di conflitto con essa.

 

Cosa fai tu per la tua società?

 

Cerco, come essere umano, di migliorarla un pochino — quel poco che posso — praticando l’onestà intellettuale, la gentilezza e il desiderio di combattere la sua diseguaglianza di fondo. Come scrittore, racconto storie.

 

Una cosa bella che ti è capitata di recente, oltre ad aver vinto il Campiello 2014 con Morte di un uomo felice?

 

Tutto l’affetto di amici, colleghi, lettori e conoscenti che si è generato attorno a questa vittoria. Il fatto di non avere vinto da solo.

 

Una passione culinaria?

 

Il mio piatto preferito sono gli spaghetti al sugo. Semplice semplice.

 

Che vino/bevanda?

 

Birra, decisamente. Ma non disdegno anche il vino rosso, di preferenza umbro o friulano.

 

La musica o un libro (non tuo) che ti accompagna.

 

Mentre scrivo queste righe ho sul comodino “Città ribelli” di David Harvey e sto ascoltando gli At the Drive In. Ma non sono scelte granché indicative: ho dei gusti molti vari in entrambi i casi.

 

Puoi anticiparci qualcosa degli scritti che affollano il tuo desktop ora, o il quaderno se lo usi ancora?

 

Ho un paio di idee, ma è ancora troppo presto per affrontarle. Al momento sono troppo impegnato fra lavoro e incontri; appena avrò un po’ più di calma mi ci dedicherò. L’unica cosa che posso dire è che il dittico sulla giustizia termina qui: il prossimo libro non avrà nulla a che vedere con magistrati e dintorni.

 

Un talento che hai, uno che ti manca

 

Che ho: saper scrivere (o almeno lo spero). Che mi manca completamente: un sacco; i principali sono saper cantare e saper disegnare.

 

Quali sono i tuoi metodi per vivere lentamente?

 

Non ho uno smartphone; cerco sempre di ritagliarmi la possibilità di starmene da solo per qualche tempo; uso la bici e i mezzi pubblici. E le cose importanti per me rimangono sempre le stesse — gli affetti, la libertà, la scrittura e la lettura: tutti elementi che si apprezzano solo con la lentezza.

                                                                                                       

Cosa hai imparato sin qui dalla vita?

 

A non rispondere a questo tipo di domanda.

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