Il punto di rugiada

Il prolifico regista e sceneggiatore italiano Marco Risi (Fortapasc, Maradona la mano de Dios, Il muro di gomma, Ragazzi fuori, Mery per sempre, Soldati 365 giorni all’Alba…) mette mano ai ricordi e al colmo dell’anima, affidando un ruolo centrale alla poesia nel suo ultimo film Il Punto di Rugiada.

Racconta i suoi avi, sé stesso e più in generale la relazione presente/passato attraverso un accurato e analitico ‘teatro delle ombre’ agito da vecchie e nuove generazioni che casualmente si incontrano.

E’ come un sogno raccontato da svegli in cui i contorni del proprio oggi e dello ieri degli altri non sono netti, in cui quattro stagioni si susseguono quasi a mimare le fasi la vita: la storia si svolge tutta in una villa storica dalla bellezza senza tempo (si trova a Frascati, durante le riprese tutto il cast ha vissuto lì).

Marco Risi è figlio dell’indimenticato regista Dino Risi: questo film è una sua elegia in molte direzioni – senza grandi proclami, con piccoli gesti semantici e ‘didascalie’ che parlano solo all’anima di chi lo conobbe. 

Il film ha una gestazione di oltre dieci anni e fonde due storie, questa che vedrete nella pellicola ed un ricordo di Dino Risi a cui il regista lavorava sotto un altro titolo (Forte Respiro Rapido).

Avendo elaborato a lungo il progetto, vi convergono ottimi spunti di finzione e un corpo a corpo con la propria biografia mai pedante e mai acerbo. Ogni scena è vivace, cresce rapida e prepotente, la collezione di tutti i personaggi – gli ospiti di una casa di riposo per anziani e gli operatori sanitari che vi prestano servizio- è vasta al punto giusto.

Il registro preponderante è la bitter comedy: amara per le ragioni che tengono insieme i personaggi tuttavia anche soave, suadente, allegra per la leggerezza in cui i protagonisti ed i gregari agiscono – senza dimenticare le lenti della profondità e dell’ironia – temi importanti come il fine vita, il conflitto inter-generazionale, la violenza, la malattia, la solitudine, l’amore, il desiderio.

Due giovani, uno della high society ed uno proletario, vengono mandati ai lavori socialmente utili 

in un ospizio per anziani indubbiamente upper class: Carlo (Alessandro Fella) si becca un anno perché ha quasi ucciso due donne in un incidente stradale  – una delle quali è la capo infermiera della struttura Luisa (Lucia Rossi) – e Manuel (uno strepitoso gregario, Riccardo Gudese) è stato sorpreso in flagranza di spaccio e si becca 18 mesi.

La loro vita e il peso che da qui in poi daranno alle loro geografie familiari e sentimentali cambia in modo copernicano al contatto con la vita lieve – pesante e fragile insieme – degli anziani pazienti, ospiti affatto permanenti di un mondo che ha già azzerato il loro valore.

Il cast degli ‘ospiti’ dell’ospizio è stellare: si tratta dei migliori attori italiani di teatro, cinema e televisione degli ultimi cinquant’anni (da Eros Pagni, un ex colonnello, a Massimo De Francovich, un ex fotografo ed il protagonista la cui stanza è stata meticolosamente ricostruita uguale a quella di Dino Risi, fino ad Elena Cotta e a tutti gli altri: un ex attrice, un ex scienziato, un playboy, una coppia con la moglie malata di Alzehimer che celebreranno di nuovo il loro matrimonio, due sorelle bon vivant…).

Il livello biografico della storia – soggetto e sceneggiatura originali firmati dal regista, da Riccardo de Torrebruna e Francesco Frangipane (con Enrico Galliano) – è magistralmente ‘condotto’ uber alles grazie alla poesia che crea un registro intellettuale e finanche metafisico della relazione tra il sé dell’oggi e le proprie radici familiari.

Manuel, che ha un ruolo di ‘reader’ e cantore della storia, si impossesserà della parola scritta che snocciola lungo tutto il film: una mixitè esilarante tra trash e filosofia, tra cronaca nera e lirismo estremo. Un readers’ club che va in scena tutti i pomeriggi all’ora del tè fino a che la poesia strabocca dal canovaccio deputato e diventa partitura e metronomo insieme della intera storia.

Nelo Risi, zio del regista (fratello di Dino, regista a sua volta oltre che scrittore e marito della poetessa Edith Bruck) entra nella pelle di un protagonista importante che arriva per ultimo nel tragicomico hotel-caravanserraglio di lusso (Luigi Diberti, nemico in amore di Dino/De Francovich). 

In Italia pubblicate prevalentemente da Mondadori, le sue poesie sono estremamente attuali: struggenti, sono le dorsali al climax della pellicola anche se l’autore nel film non le ricorda come sue afflitto da demenza).

Sono lette da più voci in momenti molto importanti ma sarà Manuel ad ‘ereditarle’ in una sorta di non-testamento, di vero e proprio passaggio di testimone che significa inno alla cura, presa in carico di un ‘abbandono’. In particolare, resta vivida (e scritta, in una scena memorabile, anche nella neve) questa:

I lupi

La mia città deserta

un nero vento invade,

la mia città dolora

all’alba delle case

Il muro non misura

più di tre metri, il sonno

di quel ragazzo steso

a lato è un peso eterno

Il lupi sono scesi

visitano le strade,

autunno o primavera

non mutano paese

La mia città deserta

ha occhi di rovina,

le rose del suo sangue

c’è già chi le coltiva.

In uscita in Italia il 18 gennaio nei cinema, Il punto di rugiada è un film delicato, quasi evanescente che merita attenzione ai dettagli, capacità di astrazione che ogni spettatore saprà esercitare a modo suo portandosi dietro il proprio rapporto con gli avi, con la storia, con la sua tribù. 

Il film si chiude con una sorta di slide show il cui alto valore emotivo sarà percepito solo dagli spettatori italiani ma appare un po’ forzato: il ricordo delle morti per Covid di tanti anziani ricoverati nelle RSA (non certo di lusso come quella messa in scena da Risi). 

Il regista ha ufficialmente dedicato la pellicola al compositore delle musiche originali, Leandro Piccioni, e al capo truccatore, Gino Zamprioli entrambi morti pochi mesi dopo la fine del film.

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