Kostel

Non pensavo che un ragazzo così bello facesse cilecca a letto. Venuto da un vicolo sul Mar Nero a una birreria di qui portando un sorriso spavaldo che apre tutte le porte, chi sei dentro, Kostel, quanta paura hai?

Mi sono incapricciata di te da quei tavoli della noia e della birra, non la mia noia e la mia birra: ma quella di tutti, che ognuno va a bere nel tardo pomeriggio, fra il primo e il secondo tempo del proprio horror. Fra il giorno e la sera per molti c’è in mezzo il bar.
Mi piacevano il tuo viso e il modo svelto con cui mi davi il bicchiere, soprattutto quando uscivi dal bancone per portarmelo. Ho gioito quando scherzando mi hai tenuto le mani e poi mi hai chiesto il numero di telefono, ed eri più sincero che sfacciato, mi è parso.
Allora questa sera esco con il barista rumeno. E poi ci baciamo. E poi viene a casa mia. Nell’urgenza che ha di spogliarmi si intuisce già la sua corsa. La bocca è virile ma l’animo è di un ragazzino, you kiss just a-like a man. A me convince la tua bellezza e commuove l’affermazione di vita, ma tu che cosa cerchi? Mi bruci addosso perché sai che bisogna scopare o perché non hai più una madre, un amico, né tantomeno hai mai avuto una donna intera? Per tutto ciò mi stringi come un assetato, mi guardi timido e pazzo, e metti il preservativo quasi con sollievo, così ti stacchi un attimo, come se fossi in autostrada, a guidare un camion, come se fossi padrone di te stesso.
“Piano Kostel, sei bello, ecco, così mi piaci…”. Non faccio fatica ad amarti nel minuto che dura questo lampo, questo quadratino di cioccolata liquefatto all’istante su una lampada accesa.

Kostel viene, ed è talmente cinto d’alloro dagli dèi del bello che non suda, non arrossisce, non si inturgidisce sul collo. Però è mortificato dalla brevità dell’atto, si arrabbia da solo, reagisce male. Offeso si gira, credo che finga di addormentarsi, oppure dorme davvero, per rabbia, per la fine troppo ansiosa del suo momento di riscatto.
Poi si sveglia o meglio si riscuote, fa un viso da duro e si tira su, senza una parola. I jeans, le scarpe da tennis, ultima una T-shirt carina grigia e rossa, probabilmente scelta con attenzione poche ore prima, quel secolo prima quando si preparava a uscire con me.
Così funzionò la mia prima volta con Kostel.

La seconda, cambio di campo, andai io da lui. Su su nel grande palazzo d’epoca, i passi sulle scale di pietra, bella però questa casa, la vecchia Milano che diventa una casbah. Kostel mi aspettava, si era appena alzato. Saranno state le nove e mezza di mattina, e io mi sentivo meglio di molti altri, ero sulla soglia del mio bel ragazzo rumeno che mi apriva la porta contento, calzoni del pigiama e canottiera. Nella piccola stanza c’era anche un altro rumeno, “un amico”, come di solito si usa presentare compari e paesani. Infatti quest’uomo malinconico con la barba malfatta, più vecchio di Kostel, fu amichevole e silenzioso, preparò il caffè, cercò lo zucchero, lo bevemmo insieme e poi se ne andò.

Kostel mi tirò sulla sua branda e per quanto mi riguarda era anche bello essere in due in un letto così piccolo, sentendosi un nucleo vitale di resistenza al vuoto, di desiderio. Anche se nervoso da sempre ora il ragazzo giocava in casa, era meno timido che da me. Mancavano a dargli soggezione o risentimento i miei libri, le mie tre stanze, la mia vita intera ferma dentro un appartamento. Facemmo colazione con la birra, poi me ne andai in lieve vertigine.

Non lo sentii per diverso tempo, lui non mi chiamava e io non passai dalla birreria. Una notte dormivo profondamente e mi svegliò il citofono. “Fammi salire”.
“Ma Kostel, sono le quattro!”

“Fammi salire, allora, ti ho detto!”

“Cosa vuoi?”

“Apri”.
Non ne avevo la minima voglia, mal di testa, alle sei mi dovevo alzare. Gli dissi di no e lui si attaccò al citofono. E trrr, e trrr, svegliava tutta la casa. Decisi di scendere a cercare di calmarlo. Così il buio divenne luce elettrica, la testa una palla d’acqua di stagno, questo essere umano giù sul marciapiede, io sulle scale desolanti. Lo vidi oltre il portone di vetro, come un forsennato, contratto a guardare i citofoni con lo sguardo esplosivo.
Appena uscita mi abbracciò col disordine nel corpo, voleva baciarmi, voleva spingermi nell’atrio e intanto parlare, ma non aveva niente da esprimere tranne quell’urgenza di affermarsi. Al mio continuo rifiuto sbottò, e qui sì che le parole fluirono in urla da una voce non più di uomo ma di bambino disperato e violento, “Dimmelo!”, e mi stringeva e gridava, “Allora dimmelo in faccia! Dimmelo che non mi vuoi perché sono uno straniero di merda!”.
Non era così. Non so se lo capì o no, anche perché era mezzo ubriaco. Comunque riuscii a tenerlo fuori dal portone, e poi alzarmi alle sei lo stesso, come un mulo.
Attualmente, sempre mezzo ubriaco, il bellissimo Kostel mi telefona ogni 31 dicembre chissà da dove, dopo la mezzanotte, a farmi gli auguri di buon anno nuovo. Ha lasciato la birreria; tutte le volte gli chiedo dove lavora adesso, ma non me lo vuole mai dire.

 

[Anna Lamberti-Bocconi, Rumeni. Romanzo di storie, Stampa Alternativa, 2009]

 

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