Maurizio Braucci, sceneggiatore

In che epoca sogniamo, di che foggia si ammantano i nostri desideri?

E lo sfruttamento, la ricerca del benessere hanno forse la privativa di un secolo su un altro?

Di sicuro la storia – e le storie – ci raccontano che la lotta di classe ha attraversato indenne i mutamenti del mercato del lavoro (e la prevaricazione pure).

Martin Eden è stato scritto da Jack London e per molti critici contiene una forte vena autobiografica.

Un marinaio poco istruito si appassiona alla lettura e diventa uno scrittore affermato (e prima ancora un pensatore acclamato nel dibattiti filosofici dell’epoca), anche se pochi avrebbero mai scommesso su di lui, neanche l’amata signorina upper-class con cui si fidanza.

Finirà suicida, proprio nel mare che rappresentava il suo sostentamento, dopo aver raggiunto il successo che voleva ma in cui si è perduto – avendo perso prima il rispetto di sé e poi la sua vena creativa.

Il primo che ha provato a fare un film (muto) dal romanzo è stato lo statunitense Hobart Bosworth nel 1914 (cinque anni dopo l’uscita del romanzo).

L’ultimo ad adattare (assai liberamente) la storia per il cinema è Pietro Marcello: strazia per la sua complessità e per la poesia che somma a quella di London.

Finora aveva sempre fatto documentari – certo unici nel suo genere, ma pur sempre documentari. E’ il suo primo film di ‘finzione’.

La pellicola viaggia continuamente nel tempo e nessuno di voi si sentirà perso, vi muoverete del pari – senza tema – sentendovi leggeri e potenti al tempo stesso.

Talmente fantasmatici che avrete uno straordinario potere introspettivo, non spaventatevene!

La trama è assai politica ma il registro è intimo: si snoda accanto ed in mezzo a grandi storie d’amore.

Quella di un uomo per la donna che gli ha strappato gli occhi rendendolo incapace di vedere qualsiasi altra, quello di una sorella per il fratello più piccolo che suo malgrado la vita maltratta. Quello di una sconosciuta che apre la sua porta e il suo cuore e la sua giovane famiglia ad un essere, altrettanto giovane ma tormentato, che incontra su un treno.

Tutti questi amori saranno incondizionati, tranne uno: quello tra Martin Eden ed Elena (la giovane fidanzata upper-class), che devono imparare ad amarsi, perché così non hanno mai amato.

Il collante di questo otto-volante di sentimenti vulcanici è Napoli, che tutto gemma e tutto contiene (ad un tratto, tra i mille volti che si intersecano a quello gigantesco di Luca Marinelli/Martin Eden, compare anche quello di Pietro Marcello, il regista).

La città di porto è il paradiso e l’inferno, l’alta società e i disperati, la fucina della destra come della sinistra: in sé tiene e disputa tutti i mali del mondo e, insieme, i vertici dei sentimenti. Ed è il palco migliore per parlare di riscatto sociale attraverso l’auto-valorizzazione e la cultura, unico strumento che mette in condizione ogni popolo di trovare una strada migliore di quella da cui si viene.

Quello che ricorderete per sempre è la patina del film: un’alchimia di grani di luce e di prospettive mai visti.

Incontriamo a telefono uno degli scrittori napoletani che conosciamo da anni perché parte degli stessi movimenti civici e sociali che hanno attraversato in modo diverso l’Italia negli anni 90.

Abbiamo apprezzato Maurizio Braucci nei racconti, nei reportage, nei libri, a teatro e da ultimo nel tanto cinema che da oltre 15 anni porta sullo schermo come sceneggiatore e adattatore di grandi classici o di romanzi – come Martin Eden con Pietro Marcello – che hanno, è proprio il caso di dire, contribuito a riscrivere i generi letterari e le ‘fascette’ che trovate sugli scaffali quando girate nelle vostre librerie preferite. 

Grande attivista e pensatore, secondo lui non bravo a mediare ma io dissento – si racconta proprio a partire da Martin Eden. Che ha vinto anche il Premio della Giuria al Toronto Film Festival.



La tua vita da dove inizia, in poche righe.

Il tuo impegno civile ha preso molte forme, non solo con il progetto teatrale pedagogico con attori non professionisti (Arrevuoto) ma con quella che ricordo più vividamente come la stagione più straordinaria per la cultura e la coesione cittadina. 

Parlo del DAMM (Diego Armando Maradona Montesanto) che si trova ancora oggi in uno dei quartieri più dolci e meravigliosi – anche feroci – di Napoli (Montesanto, dove sei nato). Cosa ti diede la spinta e cosa conservi di quell’esperienza?

Nato e cresciuto, appunto, a Napoli, me ne allontano spesso – per lavoro: Roma per il cinema, Milano l’insegnamento. 

Sia io che Pietro (Marcello, ndr) veniamo da un’esperienza di movimento di base, che anche tu hai vissuto. Nel 1995 occupammo questo parco e con il nostro lavoro lo abbiamo restituito alla città. Io non collaboro più perché lascio spazio ai più giovani. 

Ora il DAMM è una realtà aperta, con un sacco di istituzioni e associazioni a tenerlo vivo. Come vivo e operoso è l’intero quartiere.

Quello che dici di Montesanto….ehm non so. 

Penso lo senta chi lo ha vissuto, non chi lo ha attraversato. Queste realtà odierne di coesione sociale e produzione culturale sono così mimetizzate nella realtà che le incontra chi esplora. Devi proprio conoscere il quartiere per sapere che c’è lo Sgarrupato, il DAMM stesso, lo Scugnizzo, la Chiesa delle Scalze e varie altre realtà. Noi abbiamo invitato alla proiezione napoletana di Martin Eden anche il Centro di Studi Libertari Louise Michel per dire che abbiamo ritenuto il film un’appendice di queste esperienze.

Se ti ricordi di quei primi anni, nel movimento noi eravamo un ‘caso’, ci siamo sempre distinti perché orientati a rappresentare (cioè a rendere possibili) molti linguaggi ma soprattutto, pur avendo una forte base politica, eravamo più dedicati a fare attività direttamente nella società, soprattutto con i ragazzi. Ricordo Luca Rossomando, con Monitor che nasce dal DAMM. Teatro, musica, arte contemporanea, ne abbiamo fatte di tutti i colori!



Oltre ad una realtà di produzione artistica gigantesca per la città (e lo resterà negli anni a venire!), era soprattutto un punto di aggregazione per persone di tutte le età, mi ricordo delle grandi feste ma anche delle domeniche pomeriggio con il tè e piccoli act…

Quella era la parte che viveva di più il pubblico, ma noi abbiamo soprattutto lavorato sulla quotidianità degli abitanti e sul rapporto con il quartiere.



Al di là del fatto che ci fosse anche Pietro in quegli anni, a me ha sempre colpito il DAMM come metodo: è rimasto ancora unico…

Di centri sociali ce ne sono tanti, non solo a Napoli, che si chiamano adesso spazi liberati, giustamente: liberati dall’abbandono, dal non essere dei luoghi per la città. Tutte queste attività ora sono accomunate da un lavoro diretto nel loro quartiere per persone che hanno più bisogno di sostegno.



Di recente ho visitato l’ex OPG, che mi ha colpita non solo dal lato artistico ma dalla qualità dei percorsi formativi (gratuiti) che mette a disposizione 

Loro ad esempio si sono costituiti anche come entità politica con Potere al Popolo, che è stato un partito alle recenti elezioni politiche nazionali…



La tua passione per la scrittura viene da lontano (dalla narrativa e dal giornalismo) prima di prendere la strada del cinema. Cosa ti ha portato esattamente alle immagini in movimento e perché? 

Hai iniziato proprio con il primo film del regista casertano Pietro Marcello, con cui hai da ultimo hai firmato la sceneggiatura di Martin Eden…che sembra finora anche la tua direzione preferita: adattare per il cinema un grande romanzo. 

Lo hai fatto anche con Gomorra (di Roberto Saviano) e prima di Martin Eden di Jack London, con un altro scritto di Saviano che ti è valso l’Orso d’Argento a Berlino, La Paranza dei bambini 

Penso che la letteratura odierna sia tipicamente contaminata da vari altri generi, pensa ad esempio al giornalismo o all’inchiesta di sapore letterario. In effetti non è che sono state inventate in questi anni: queste scritture sono di antica tradizione da Checov in avanti, pure pensando allo stesso London. Narrazioni di pezzi di mondo reale ai più sconosciuti perché marginali. 

Esprimo quello che il mio tempo esprime.

Il cinema, forse, può avere se vuoi una valenza politica: è per tutti, raggiunge tutti. 



Mentre a un libro ci devi arrivare a un film ci puoi capitare – non solo scelta, ma caso o word of mouth…

Io ho continuato, comunque, sopratutto per quanto riguarda l’inchiesta e l’inchiesta letteraria, a scrivere e ho fatto un libretto l’anno scorso – L’infelicità italiana – che mi ha pubblicato Monitor, sulla situazione attuale del rapporto tra italiani e immigrati. 

E’ vero, il cinema è diventato la mia attività centrale, ma non ho lasciato le altre. Semplicemente ho dato ad esso più spazio.



Sceneggiature da romanzi molto importanti, o da grandi classici: ti piace particolarmente?

Mi è capitato di fare degli adattamenti, nel cinema succede spesso. Al di là di questo, ritengo che la letteratura sia la base formativa delle persone. Ecco che per me nella scrittura cinematografica è fortissima la mia esperienza letteraria. Ancora oggi mi formo con la lettura sia di classici che di contemporanei. 

Quando tengo dei corsi di scrittura cinematografica, dico sempre che la letteratura è la più avanzata sperimentazione di scrittura. Guarda le serie TV oggi: usano tecniche (vedi il cut-up o il flusso di coscienza, la narrazione libera da piani temporali) che la letteratura adotta da tempo e che sullo schermo vengono invece ritenute innovazioni speciali. 



Di recente, proprio alla Mostra del Cinema di Venezia, la presidente di giuria ha espresso con molto coraggio e parole asciutte che ‘dovere del cinema è iniziare una conversazione attorno ai mali del nostro tempo, proprio perché è sempre più difficile conversare oggi’. Seguendo le sue parole, ne deriva una responsabilità enorme in capo a chi scrive di cinema, la professione più nascosta dell’industria (dove i volti più noti sono quelli degli attori e dei registi). 

La scrittura cinematografica forse è la più particolare insieme al cantautorato. Se azzardo un parallelo, ha l’onore e l’onere di far scaturire il ritmo. Come svolgi il tuo lavoro? E’ più condiviso di quello di uno scrittore, è cioè meno solitario?

Sono d’accordissimo!

Siamo molto nascosti, nella professione e nell’industria. E abbiamo un’enorme responsabilità, da moltissimi punti di vista.

Lo scrittore per il cinema raramente scrive da solo, la nostra è una scrittura di passaggio perché poi …c’è il film. 

Ho avuto la fortuna di lavorare con registi bravi che mi hanno aiutato a crescere ed imparare ma hanno dato valore a quello che potevo scrivere.

Il mio metodo di lavoro è un po’ diverso da quello a cui sei abituato se esci dalle scuole di sceneggiatura, che seguono quello ‘strutturalista’, americano, compiuto, definito. Mi interessa di più la sperimentazione e quindi sono disposto a prendere più rischi. Ciò non toglie che ho scritto anche film strutturati, ma sempre cercando un contributo che viene dal fatto che do molto valore alla letteratura.



Nel caso di tuoi due recenti adattamenti – Martin Eden e Gomorra – avete scelto quindi collettivamente quali erano le parti più rilevanti del libro da portare nel film

E’ stato diverso: con Gomorra è stato un lavoro capitanato di più da Matteo Garrone (il regista) che aveva una visione immediatamente cinematografica su quel libro.

Nel caso di Martin Eden io e Pietro abbiamo lavorato quasi in simbiosi su un libro che ci accomunava, che abbiamo amato e che amiamo. Quindi era da subito una scommessa su qualcosa di meno strutturato, peraltro Pietro fa un cinema di poesia. 

Io sapevo, conoscendolo, che tutto quello che avremmo scritto lo avrebbe trasformato attraverso la sua scrittura di cinema e così è stato. 



Quali sono i tuoi maestri se ne hai, o ne hai cercato qualcuno?

A parte i grandi scrittori che tutti quelli che amano la letteratura hanno, sicuramente quegli scrittori che hanno messo la vita nella letteratura. 

I miei maestri di scrittura sono due grandi sceneggiatori italiani con cui ho avuto l’onore di lavorare – Massimo Gaudioso e Ugo Chiti. 



Cosa ti senti di dare oggi a Napoli, la tua città e un po’ il centro del tuo mondo da cui vieni e vai, e cosa Napoli ti restituisce? 

Molte delle tue scritture da film hanno avvicinato e non allontanato dalla città, vedi un tema così forte come quello affrontato con una storia vera come La Paranza dei Bambini (l’ho visto non a Napoli con persone non di Napoli e tutti avevano la voglia di venire subito a conoscerla…questo magari non te l’ha mai detto nessuno sul portato di quel racconto!)

Napoli è un luogo comune dell’Italia. Se vuoi fare un film sulla politica lo ambienti a Roma; sulla finanza lo ambienti a Milano, se vuoi fare un film pop lo ambienti a Napoli. 

E’ piena di una vitalità speciale, qualunque storia ci ambienti c’è sempre un personaggio che è proprio Napoli. Talmente densa, vitale, trasbordante che non la tieni sullo sfondo. Però è anche vero che è una metafora. Mi è capitato di raccontare spesso delle storie prese da pezzi di mondo poco conosciuti (l’infanzia, la criminalità ma non solo) che prendevano forza da questo contesto. Ho naturalmente partecipato a dei progetti che partivano da Napoli perché mi sembrava prendessero più forza, appunto. 

Napoli in termini di stimoli verso il mondo, te ne da tanti, anche troppi.

Storie, storie, storie, volti volti volti e i volti sono storie – in termini di emozioni tante! 

Chiaramente ti da anche un’enorme responsabilità che è quella di non restare a guardare. Non ci dimentichiamo che è la capitale morale del sud, di un Sud Italia che è la grande ‘questione nazionale’. 

Parlo di un’area che non ha ancora realmente beneficiato neanche di quelle compensazioni che lo sviluppo economico e la democrazia così intesa in questa società ha magari portato in altre parti del paese. Resta, intatta ed enorme, la questione meridionale. 

Non mi stupisco, alla fine, ad osservare delle cause a delle condizioni e problematiche ricorrenti che sono anche culturali, antropologiche. 

Come ti dicevo, quando decidi di restare a Napoli, hai automaticamente almeno la responsabilità di raccontare tutto questo. 

Vivere a Napoli necessita di una sorta di upgrade dell’essere cittadini, è un posto che per essere vissuto ha bisogno di contributo alla politica della città perché rimane un luogo con una forte irresoluzione. Il grande tema della città è la formazione dei giovani alla cultura e al lavoro, tanto e troppo c’è da fare!

Quando ti parlo di questo, parlo anche di gran parte del Sud, essendo Napoli la capitale ‘morale’ del Sud. 

E’ una città, inoltre, che mangia molto le cose che produce. Le ri-sotterra, le ri-germoglia, ma mi sembra che per esempio con il cinema stia diventando un grande riferimento.



Una domanda sull’economia dell’industria cinematografica. All’ultima Mostra del Cinema di Venezia i maggiori numeri sulle produzioni e co-produzioni veniva registrato da Italia e Francia, due paesi che hanno contribuito anche alla nascita del tuo film. E’ ancora una volta una grossa alleanza del cinema europeo anche se dal lato distributivo, noi siamo carenti soprattutto nel mercato delle seconde visioni.

Come la vedi sulla questione dei finanziamenti: continueremo con i partenariati tra nazioni coese? 

E’ una domanda molto importante perché innanzitutto rappresenta una questione più generale del rapporto dell’Italia con l’Europa (problematico negli ultimi anni come anche per altri paesi). 

L’Unione Europea rimane fondamentale ma va riscritta a partire da politiche di coesione, non agita come è stato finora.

La salvezza per il cinema italiano risiede proprio nelle co-produzioni internazionali perché da noi la situazione produttiva è uno dei motivi per cui ti dicevo mi si vede sempre sulle barricate. 

I produttori veri da noi sono pochissimi, moltissimi sono solo amministratori e mediatori di fondi per il cinema che da noi è quasi totalmente di matrice statale. Ne consegue che non esiste una vera industria per il cinema. 

Sicuramente la dinamica di fondi pubblici protegge la sperimentazione e i film di impegno ma di questa situazione (la cui coperta è già corta, aggiungiamo noi) ne approfittano anche realtà più potenti che non hanno questo obiettivo. Forse i rapporti internazionali aiutano quei produttori e quegli autori che sono più esclusi dal lobbismo cinematografico, che esiste in questo come in tutti i campi.



La distribuzione italiana però rimane uno scoglio insuperato, visto che è in pochissime mani. Non abbiamo mai sale con programmazione meno scontata o per la seconda visione (a parte i cineclub e le associazioni).

E’ un grande problema la distribuzione e anche lì esiste la questione lobbistica, anche perché tecnologicamente siamo tutti pronti ad iniziare nuovi percorsi – dallo streaming alle sale cinematografiche più diffuse. 

Sarebbero anche posizioni ‘difendibili’ quelli dei distributori (ad esempio che la sala cinematografica è un baluardo di qualità della visione) però il problema è queste sale non sono ben disposte verso il pubblico, prediligono politiche molto commerciali quindi di esclusione. Sarei a favore del mantenimento delle cose se questa politica delle sale cambiasse, ma non mi sembra evolva.



Prossimi progetti?

Vorrei esordire come regista, portando sullo schermo uno scritto (La Fontana Rotta) di un antropologo americano, Thomas Belmonte, che ha scritto sulla Napoli degli anni 70, nato dall’osservazione sul campo della cultura della povertà e di altre questioni umane non solo ancora valide ma molto belle. E’ un racconto che testimonia come un osservatore si perda nel mondo che va a indagare con la sua empatia



Un talento che hai, uno che ti manca

Quello che mi manca è la mediazione, sono una persona che vive anche tanti conflitti. Inevitabilmente quelle cose che vedi che non funzionano tra le persone, non funzionano anche nell’ambito lavorativo. Vorrei tanto poter mediare di più, lasciar cadere una serie di questioni etc ma mi ritrovo sempre a fare battaglie, a scontrarmi con l’ingiustizia e lo sfruttamento e questo ti rende sempre un po’ in piedi sulla barricata!



Dove ti vedi tra 10 anni

Non ho trovato un (altro) posto dove ho pensato di andare. Ma parto spesso per lavoro e in genere mi sposto molto forse per questo riesco a restare a Napoli.

Napoli è molto avara, ci sono poche risorse gestite da pochi. 

Sono più belle le esperienze anarchiche, in questa città. E qui possiamo tornare alla storia di Martin Eden, fatto da un regista campano, da uno sceneggiatore napoletano. Era la cosa più facile da fare: ambientarlo a Napoli.



Cosa hai imparato sin qui dalla vita

Che l’amore è la cosa più importante: a parte i talenti e i successi, è l’arte più difficile.



L’immagine di copertina raffigura la delegazione del film Martin Eden alla Mostra del Cinema di Venezia (courtesy La Biennale/ASAC), Maurizio è sulla sinistra
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