Giogiò Franchini, Napoli

 

La tua vita in poche righe, con un particolare accenno a dove nasci e cresci 

Ero un ragazzo come tanti, sensibile e introverso ma allo stesso tempo socievole e curioso: la musica, il calcio giocato e gli ippopotami erano le mie grandi passioni.

Papà avvocato era un workaholic (io ero certo di non cadere nella stessa dipendenza, ma non sono tanto sicuro di esserci riuscito) a lui mi legava un amore carnale – mio nonno ci sfotteva per tutte le nostre effusioni “ma c’ata fa’ cu tutte ‘sti uommeche…” (dal napoletano: piantatela con queste smancerie, potrebbe essere un tentativo di traduzione: letteralmente non ha senso in Italiano). L’ho perso troppo presto, il mio babbo. E penso spesso a lui, Carlo. Sarebbe contento ora nel vedere che evitarmi tribunali e carte bollate e spingermi a seguire i miei percorsi per quanto sghembi, evanescenti all’inizio mi abbia comunque portato oggi a ottenere risultati concreti e per me appaganti.

 

 

Ci piace molto indagare il cinema attraverso la scrittura, tuttavia il montaggio è – crediamo – la sua somma più definitiva. Come hai scelto di diventare montatore e come invece anche regista. 

Indagare il cinema attraverso la scrittura non può prescindere dall’analisi del montaggio, che riporta alla concretezza dell’oggetto filmico tutte le buone intenzioni della sceneggiatura. Nelle lezioni che occasionalmente mi capita di tenere agli studenti di cinema, il mio interesse si è focalizzato proprio sulla riscrittura del film realizzata dal montaggio: partendo da una prima messa in fila del film scelto – abitualmente abbastanza fedele allo script – raccolgo le loro impressioni, i loro suggerimenti sul tipo di interventi – tagli, spostamenti di scene – che avrebbero messo in pratica per migliorare il film, ed alla fine guardiamo e commentiamo il film nella sua veste definitiva. Dialoghi, scansione temporale delle scena, omissioni, talvolta totali re-invenzioni del girato: il film sfornato dalla moviola è sempre sensibilmente diverso dalla sceneggiatura.

Più che scegliere io di diventare montatore è  stato il montaggio a scegliere me… scherzo ma non troppo. Ho sempre avuto una grande passione per il cinema, l’ho praticato a livello amatoriale giocando con il super8, ma fino a trent’anni ho fatto il tecnico luci a teatro (momenti di grande creatività come il disegno luci accanto a fatica vera, se penso ai debutti, alle casse caricate e scaricate dai furgoni…).

Nei primi anni Novanta Antonietta De Lillo, Giorgio Magliulo e Paola Capodanno stavano mettendo in piedi a Napoli Megaris, una società di produzione e post-produzione cinematografica, e cercavano una figura simile ad un responsabile tecnico. Anziché puntare su di un profilo professionale già formato privilegiarono la ricerca di una sensibilità affine alla loro, l’idea di un percorso di crescita comune. E scelsero me.

Una grande scommessa da parte di entrambi: io guadagnavo bene col teatro all’epoca e mi imbarcavo in una situazione a me del tutto ignota, e loro mettevano uno studio nuovo di zecca con macchinari all’epoca sofisticatissimi (c’era il primo Avid italiano al di sotto di Milano) in mano ad una persona che non aveva nessuna competenza tecnica. Il coraggio paga.

Regista no, non ho mai scelto di diventarlo. Ci sono già troppi registi mediocri in giro. Mi hanno proposto di firmare dei lavori ed io l’ho fatto con diligenza, ma quello del montatore è il lavoro perfetto per me: tirare fuori il meglio da cose fatte da altri.

 

 

Gioie e dolori quando iniziasti ed invece oggi – dato che sei il più ricercato degli editor italiani?

Nel 1994 – ero sepolto vivo negli studi della Megaris a Mergellina da due anni, sotto il peso di tonnellate di incomprensibili manuali d’istruzioni in inglese tecnico e nastri Betacam e U-Matic – Luciano Stella mi propose di fare un film di montaggio per la festa di Addio al Porno del cinema Mignon, storica sala a luci rosse che lui stava trasformando in cinema d’essai. Accettai ed il risultato fu, dopo innumerevoli notti insonni, “Non Porno Più”. Un grande divertimento – mio nel farlo, ma anche del pubblico alla festa – un gioco di contaminazione tra frammenti di cinema “alto” e materiale pornografico. Lì dentro c’erano molte delle mie passioni, dal Billy Wilder di Viale del Tramonto al Welles di Otello, a Russ Meyer, a Buñuel per citarne solo alcuni. Ma la spina dorsale del lavoro era La finestra sul cortile, che meglio di qualsiasi altro film mette a nudo la vera ragion d’essere del cinema: il voyeurismo. Niente di nuovo naturalmente, solo montaggio onnipotente a testimoniare l’invariata efficacia dell’effetto Kulesov poco meno di ottant’anni dopo la sua teorizzazione: i dialoghi originali del film di Hitchcock sembravano scritti apposta per le nuove soggettive che giustapposi ai primi piani di James Stewart e Grace Kelly. E l’anno dopo dal lavoro originario di 26 minuti rimontai 180 secondi incentrati esclusivamente su Rear Window e vinsi ad Anteprima per il Cinema indipendente a Bellaria il premio forse a me più caro, senz’altro il più inatteso. Certo, il primo Ciak D’Oro con Tano da morire è stato esaltante, il David di Donatello con La Ragazza del Lago una consacrazione, ma già avevo fatto tante cose quando lo vinsi.

Tra le gioie più recenti invece spicca l’incontro con Jonathan Demme, una persona la cui grandezza umana prima che professionale resterà nel mio cuore finché vivrò.

La fortuna di fare un lavoro che continua ad appassionarmi è impagabile, per cui i dolori sono pochi, posso parlare più di dispiaceri legati alla poca fortuna di film per me bellissimi ma rimasti praticamente sconosciuti al resto del mondo (diffidate dei maghi della distribuzione, determinare la fortuna di un film al botteghino è quanto di più lontano ci sia da una scienza esatta). Senz’altro avverto oggi piccole insofferenze più difficili da dissimulare rispetto agli inizi, ma le vivo come naturali conseguenze dell’età. La pazienza è invece un requisito fondamentale per chi fa il mio lavoro: l’essere accogliente è una prerogativa irrinunciabile per un montatore, quando il regista arriva in moviola alla fine delle riprese è in una situazione emotiva di grande vulnerabilità, la visione delle prime sequenze montate è quasi sempre traumatica.

Un’altra cosa che può mettere a dura prova la tolleranza del più santo dei montatori oggi è la possibilità da parte di tutti di accedere ai più elementari software di montaggio. Quando, in un futuro non troppo remoto, Il Film-Maker Monocratico ingloberà tutte le figure professionali che oggi affiancano il regista, l’auto-referenzialità, finalmente, trionferà sovrana.

 

 

Cosa ti da la tua città e cosa pensi di darle in cambio?

Io, napoletano atipico, poco superstizioso, con una cadenza non facilmente percepibile – in realtà nelle famiglie borghesi si parlava un perfetto italiano, il piacere di scivolare nelle rotondità del dialetto l’ho scoperto da adulto – ho un legame viscerale con Napoli, e quando verso la fine del secolo scorso (!!!) la maggior parte dei registi napoletani con i quali lavoravo lasciarono la città, molti amici sostenevano l’opportunità di un mio trasferimento a Roma per far decollare la mia carriera.

Ho tenuto duro, ed alla fine sono riuscito a valorizzare il mio percorso professionale rimanendo nella mia città. Talvolta mi capita di stare nella capitale dal lunedì al venerdì, ma sempre più spesso riesco a lavorare a casa, nella mia irrinunciabile moviola fronte-mare. Credo anche che uno dei mali del nostro cinema sia stato proprio la romano-centricità, la perdita di contatto con le proprie origini, con il mondo reale, con le storie che ognuno di noi si porta dentro venendo da luoghi altri, il passare troppo tempo tra persone che fanno cinema e parlano solo di cinema.

Alle mie origini devo senz’altro l’attenzione alla musicalità, al respiro dei suoni. Registi che stimo hanno rimarcato la mia specificità nel montare i dialoghi come fossero musiche, colleghi hanno sottolineato, a proposito, i miei stacchi in “levare”… Adoro la musica, non sono musicista, ma fare cinema è il mio modo di fare musica.

 

 

Che rapporto hai con la letteratura e la scrittura degli altri? E come sei come lettore: luoghi, modi, tempi?

Sembra che non c’entri nulla, ma comincerò a risponderti sintetizzando il mio metodo di approccio al montaggio di una sequenza: imbastitura prima delle successive, numerose rifiniture. Piuttosto che incaponirmi su di una scena della quale non riesco a venire immediatamente a capo preferisco accantonarla e tornarci dopo (semplificando: per me paga più la pazienza, l’attesa piuttosto che la tenacia ossessiva, il cesello più dello scalpello). Stacco. Letteratura.

Al liceo i miei più cari amici mi consigliavano vivamente di leggere Finzioni di Borges. Ci provai, ma mollai presto la presa: Tlön, Uqbar, Orbis Tertius era un inizio davvero ostico per il ragazzino che ero. Un paio d’anni dopo, non so perché, decisi di riprendere in mano il libro. E’ diventato il libro preferito della mia giovinezza, e JLB (Borges) il mio scrittore; il cortometraggio che avrei sempre voluto girare era una riduzione de Le rovine circolari – conservo ancora gli appunti da qualche parte –  ed in ogni mio viaggio cercavo il tempio e la spiaggia per la messa in scena.

Cosa c’entra questo con il metodo di lavoro, mi dirai. Provo ad arrivarci. Di fronte a forme complesse di espressione artistica – letteratura, musica (ci ho messo un po’ di tempo anche a capire la grandezza di Remain in Light!) cinema – ho imparato a non arrendermi alle prime osticità, a non farmi scoraggiare dalle difficoltà senza aver provato/trovato un altro punto di vista, un’altra angolazione per poter fare mie cose che mi sembravano irraggiungibili.

Da allora non mollo un libro se non l’ho letto dalla prima all’ultima pagina.

Un romanzo che mi appassiona è forse l’unica cosa che mi fa davvero staccare la spina – assieme al pallone, che è la mia vera attività, altro che montaggio… Come capita spesso faccio indigestione di libri d’estate, ma non mancano mai decine di libri sul mio comodino, nel mio studio o sul Frecciarossa…

Al di là dei maestri riconosciuti – che so, Capote, Celine, Pasolini, Flaiano, La Capria, Conrad –  per citare i primi che mi vengono a mente, mi piace andare alla ricerca di autori meno consacrati. Ultimamente ho letto due bellissimi libri, “Passi” di Kosinski e “La Terra del Sacerdote” di Paolo Piccirillo (quest’ultimo l’ho promesso ad Antonio Capuano perché sono certo che ne farebbe un magnifico film).

 

 

Il libro e la musica con te in questo momento?

UNKLE, Jon Kennedy, Colin Stetson, Ottorino Respighi e Public Service Broadcasting, e sto leggendo un libro barocco e ferocissimo: Il mio fiume di Faruk Sehic.

 

 

Un posto segreto -oppure raccolto – che raggiungi quando vuoi staccare se ti piace, di tanto in tanto, rallentare?

Procida, è diventata il mio rifugio da una ventina d’anni a questa parte. Tutte le mattine la vedo dal mio terrazzo, e lei è lì che mi chiama. Le Sirene esistono davvero, a Napoli.

 

 

Dove ti vedi tra dieci anni?

Faccio fatica a immaginarmi domani, figurati tra dieci anni… Un’aspirazione, piuttosto: vedermi su di uno scoglio -Procida, appunto ma anche Donousa – con Gaty, la donna che amo da più di trent’anni – a godermi (solo di riflesso!)  la felicità dei miei figli.

 

 

Cosa hai imparato sin qui dalla vita?

Determinazione, gentilezza, passione in quello che fai, cultura, talento se ne hai un po’, aiutano. Ma essere al punto giusto nel momento giusto non è una cosa sulla quale puoi lavorare.

 

 

Abbiamo pubblicato un estratto di uno scritto di Giogiò nella nostra sezione racconti, pecora a pezzi

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