Stefano Caggiano, Milano

 

La tua storia in dieci righe, più o meno

Sono nato a Forlì, città a metà strada d’un mare non profondo e d’una montagna non troppo alta, un tal bel posto che potresti viverci per sempre senza realizzarlo. Dopo una laurea in disegno industriale, e una in filosofia, mi sposto a Milano dove tuttora vivo e lavoro nel ‘design discourse’ (cultura del progetto), che vuol dire che scrivo, insegno, faccio ricerche di tendenza, e sono consulente.

 

Scrivere, fare ricerca, consulenza, interpretare e insegnare: tutte queste pratiche si riassumono in quella di critico che lavora con la semiotica, il progetto – e oltre. Le parole per te non sono assolutamente un mero titolo per oggetti…

Gilles Deleuze, filosofo francese, dice che il compito della filosofia è creare concetti – scolpire, formare, forgiare concetti. Le parole impalcano i nostri pensieri, e nel fare questo donano loro una forma, le parole sono quel che trasforma idee vaghe in veri concetti. Come teorico, lavori con le parole così come uno scultore con scalpello e martello. Del pari, il design anche gira attorno a scolpire, formare, forgiare concetti materiali, dove la filosofia fa lo stesso con quelli immateriali. Entrambi ‘delineano’ la nostra vita, insieme marcano il confine della cultura umana. Per questo mi sono occupato di entrambe sia negli studi che nel lavoro.


Il potere della tradizione? Il suo rumore e la sua resistenza, contro il ‘nuovo’ del design di arredi.

Con qualche buona eccezione, in Italia quello che chiami ‘potere della tradizione’ è l’inerzia nella ricerca. A paragone, in alcuni paesi esteri, dove non hai così tali e pesanti fardelli da portarti appresso, puoi esplorare più lontano nel futuro. Attenzione, sono molto interessato alla ricca tradizione filosofica e artistica del design italiano ma oggi stiamo attraversando una svolta nella storia del design dove devi portare la tradizione in un mondo nuovo, dove la qualità digitale si andrà a sommare alle qualità tradizionali di forma e funzione. Siamo ad un nuovo inizio e prima lo capiamo, meglio è per il design.

 

Quale settore da studiare oggi per servire meglio i cittadini: spazio pubblico, servizi, interazione, semiotica?

Servire i cittadini è importante, ma servire gli esseri umani lo è tanto di più. Negli anni ’80, teorici del design come Andrea Branzi hanno introdotto l’antropologia nella cultura del progetto, proprio quella dimensione antropologica che svelarono anche in oggetti industriali. E’ stato un balzo importante. Oggi, siccome siamo in un nuovo inizio, quello di cui parlavo prima, suggerirei che una disciplina come la semiotica cognitiva (che va dalla scienza all’antropologia culturale) si imponga come contribuzione epocale alla cultura del progetto. L’epoca in cui siamo appena entrati vedrà il design diventare digitale e fisico allo stesso tempo. Oggetti utili non racchiuderanno più un’interfaccia – essi stessi saranno connessi a frammenti di una interfaccia fisica e distribuita. Non guarderai più icone su uno schermo: siederai sopra di esse, le stringerai, ti ci muoverai attorno. Si occuperanno sia del tuo corpo sia della tua mente – con le loro forme, funzioni e qualità digitale. La cultura del progetto (che include sia progettisti sia teorici) è chiamata a riflettere e progettare questa interfaccia distribuita. Lo possono fare solamente con approcci cognitivo-semantici all’estetica degli oggetti, che dirà, o meglio che incorporerà l’informazione tangibile. I dati hanno bisogno di essere esteticamente gentili e ricchi di significato per tutti i nostri sensi, perché ‘arrederanno’ la nostra vita quotidiana.

 

Il traguardo più importante dopo che hai iniziato a lavorare alle tue varie attività?

Probabilmente, la mia professione come un tutt’uno. Intendo, l’ho costruita pezzo a pezzo, aggiungendoli sulla base della loro consistenza con il nucleo: capire e cercare di trovare ‘estetiche significative’ in ciò che ci circonda. Talvolta mi sento un cantante che lavora con gruppi differenti ognuno con il proprio suono, ma tutti attribuibili ad un ‘meta-suono’ che sorregge la loro continuità inerente. Io mi tengo stretto al meta-suono.

 

La musica e il (i) libro (i) con te ora?

Parlando di cantanti che si dividono tra varie band – mi piace quasi tutto Mike Patton, dai primi gruppi – Mr. Bungle genialmente folle, plasticamente sperimentale – fino al suo ruolo più famoso di cantante dei Faith No More. Lo tengo nel mio telefono e anche nel lettore MP3 che porto con me quando vado a correre. Mi piaceva anche ascoltare il cantautore italiano Fabrizio de André, le sue canzoni in realtà sono preghiere laiche: le sole che un ateo possa ascoltare. Sui libri, ho iniziato con letture veramente potenti al liceo, quando il professore di letteratura ci disse che non potevamo leggere Nietzsche e Freud perché non li avremmo capiti. Lo stesso giorno comprai libri di entrambi e passai i mesi successivi a leggere quasi tutto. Iniziando da Nietzsche e Freud, finisci per leggere la grande narrativa europea, come Thomas Mann, Céline, Musil, etc. Poi mi sono riportato alla filosofia, specialmente fenomenologia e filosofia del linguaggio, soprattutto Wittgenstein. Negli anni scorsi, ho letto scienza e storia della scienza; più recentemente scienza cognitiva (che insieme alla fisica delle particelle, definirà il nostro tempo come nel 1800 lo definì la termodinamica). Detto ciò, avendo un piede nel passato analogico e uno nel futuro digitale (appartengo alla generazione del ponte), tengo dei libri nella libreria e altri nel telefono. Nessuno di essi, tuttavia, sul comodino: letture stimolanti ti tengono sveglio per cui prima di dormire leggo e rileggo cose semplici e rilassanti come i fumetti, perché più sono noiosi prima mi addormento.

 

In che modo cerchi di vivere ‘lentamente’, se ci riesci, a Milano?

Cammino e corro. Senza telefono (oggi hai bisogno di ritagliarti attentamente lo spazio offline, non è più dato per scontato). Talvolta faccio lunghe corse, tipo maratone, e anche più lunghe. Correre è solo correre, non c’è un significato aggiunto. Se devi darglielo, lo rovineresti. E’ un’attività libera di significato (non meno significante). Dare un significato alla tua corsa sarebbe dare un prezzo al presente – lo sprecheresti. Lavoro tutto il tempo con i significati, qualche volta voglio liberarmene. Un’esperienza senza gravità.

Stefano Caggiano è autore di Design Languages – The Aesthetic and Meaning of Objects in Contemporary Culture, 2015

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