Benno, Paraguay

 

La tua storia in poche righe, iniziando dalla tua infanzia

Sono nato e cresciuto in Svizzera negli anni 50-60, in circostanze materiali benestanti ma allo stesso tempo sotto pressione per via di un sistema scolastico e sociale basato sulla competizione e sull’esclusione che non promuoveva la solidarietà e nemmeno una convivialità sostenibile.

Alla mia generazione fu detto di non sognare, ci si aspettava da noi che divenissimo dei realisti, efficienti e produttivi. Non mi insegnarono a coltivare l’intuizione e neanche di aprirmi all’ispirazione. Fu solo molto tempo dopo che imparai dalle culture indigene che i sogni sono una fonte di conoscenza e che vivere una vita buona significava vivere essendo sempre aperti all’ispirazione.

Ho studiato filosofia della scienza ma dopo cinque anni decisi di lasciare l’università: troppi erano i campi che mi affascinavano, troppi i luoghi ed i mondi da scoprire che male si adattavano alla vita accademia. Andai così a vivere in un villaggio di montagna nella costa meridionale dell’isola di Creta. Le isole mi hanno sempre attratto. Quell’esperienza di quegli anni a Creta fu la mia prima in condizioni di vita molto modeste e accanto a persone di altre culture: fu un apprendistato di vita. Fu un paradiso ma fu anche la chiara sensazione che ero troppo giovane per starci. Dovevo assolutamente fare qualcosa per contribuire a un futuro migliore. Quindi andai in Sudamerica con l’idea di unire le mie forze ad altri che creavano ‘un mondo migliore’. Quelli erano gli anni dei tafferugli, della ribellione, della resistenza, della rivoluzione – il sistema vi rispose con la repressione e la dittatura. Lavorai per tre anni per l’ICRC (International Committee of Red Cross), visitando i prigionieri durante la dittatura in Cile e dopo in Uruguay, Brasile, Argentina e Paraguay.

Nel 1977 lasciai e mi stabilii in Paraguay: è stato lì che mi accadde qualcosa di fondamentale, l’incontro con persone indigene e con il loro modo di vivere. Ne rimasi impressionato e decisi di imparare da loro, per me stesso e per le persone come me, le nostre società. E’ diventato il tema fondamentale del mio lavoro e della mia vita da allora. Per molti anni sono stato nella cosiddetta ‘cooperazione dal basso’ lavorando con gli indigeni e con altri gruppi marginalizzati (poveri, campesinos) e, per qualche anno, con i bambini di strada, occupandomi di ricerche partecipativi e lavorando come educatore di strada. Il mio lavoro e la mia vita sono stati un processo continuo di apprendimento: lavorare accanto agli antropologi mi ha consentito di guardare con i loro occhi; come responsabile alle attività educative, imparai dalla pedagogia di Paulo Freire (‘non puoi veramente insegnare niente a nessuno’). Ho esplorato l’omeopatia (spingendo al cambiamento guidato dalle forze naturalmente presenti nel corpo stesso, grazie ad un stimolo minimale); ho imparato a concentrare il mio lavoro sociale sui processi ed i campi energetici (spesso invisibili) e sulla domanda ‘come è possibile contribuire alla loro fluidità’.

Col passare degli anni, la pretesa di ‘cambiare il mondo’ è stata gradualmente scalata al solo tentativo di comprendere l’esistente.

 

 

Il tuo lavoro nel campo dell’antropologia comprende sia l’insegnamento che la pratica sul campo e ti sei tanto occupato di dittature e prigionieri politici. Che pensi quindi della situazione dell’oggi in America Latina, in particolare con la crisi in Venezuela e, se pertinente per te, che opinione ti sei fatto dello stato dell’arte delle precedenti politiche americane sull’area?

Mi sembra una domanda troppo vasta e complessa da rispondere qui ed ora. Ma posso dirti questo: per gli oltre 40 anni che ho vissuto qui in America Latina, l’America ha avuto sempre un ruolo negativamente dominante. Primo, con l’imposizione di governi e dittature e poi mettendo in opera violenze più nascoste e strutturali. Il loro scopo era frenare, e se possibile annientare, processi ed iniziative locali ed ispirati che si proponevano, o cercavano di difendere, condizioni di maggiore libertà ed autodeterminazione. La diversità culturale, la incredibile diversità di modelli basati su stili di vita locali che fanno perno sulla sussistenza, furono smantellati e rimpiazzati da quelle condizioni economiche che ancora operano oggi e che favoriscono l’interesse ed i profitti di grandi poteri sovranazionali come banche e multinazionali (con fette sempre più ampie di popolazioni che ora dipendono dai beni di largo consumo). Queste multinazionali di fatto usano i governi nazionali come un mero strumento al loro servizio.

Gli Stati Uniti sono stati uno degli agenti principali di quei processi decennali che hanno condotto sin qui, ma non sono stati gli unici. Molte forze locali o entità portatrici di saggezza sono state degradate ed indebolite ma non sono del tutto perdute. Specialmente in tempi di crisi e di assenza di seri governi, si svegliano sotto la forma di iniziative di autogoverno e di solidarietà, entrambe esperienze innate nel continente latinoamericano e nelle sue culture.

Il Venezuela di Chavez ha adottato una posizione di chiaro ostacolo agli interessi economici espressi prima e difesi dagli americani. Quindi gli americani hanno tentato di liberarsi di Chavez per ristabilire il loro controllo sul paese con mezzi differenti ma senza successo. Ora, dopo la sua morte, si continua su questa strada. Sono assai convinto che quel che sta succedendo in Venezuela al momento non può essere spiegato senza considerare il ruolo e le azioni degli Stati Uniti in difesa di quel potere economico che rappresenta i loro stessi interessi.

E’ utile chiedersi cosa sarebbe successo, sia qui in America Latina sia in altri continenti, se le popolazioni locali e nazionali fossero state lasciate sole a determinarsi i loro processi collettivi in modo da progettare liberamente e da soli i loro futuri?

 

 

Il tuo interesse odierno è concentrato su una minoranza (gli Ayoreo) e per essi hai creato Iniciativa Amotocodie: ci puoi raccontare qualcosa in più e anche degli obiettivi raggiunti?

Dagli anni 90, ho seguito l’impulso di esplorare il fenomeno di gruppi di persone ed indigeni che si auto-isolavano, cioè vivevano in modo invisibile a persone come noi e nel loro mondo (pre-coloniale). C’è un gruppo del genere in Paraguay, oltre 120 persone nei territori nazionali di diversi stati moderni latinoamericani. Come poteva essere la loro vita? Vivevano geograficamente nelle nostre mappe, ma certamente in un mondo tutto loro. Come vedevano ‘il mondo’, il loro mondo? A cosa questo assomigliava? E come avrebbero spiegato a loro stessi quelle presenze che d’improvviso arrivavano dal nostro di mondo, quasi come un aereo che passa sulle loro teste? Ed, infine, che accadde esattamente nel momento traumatico in cui venivano contattati contro la loro volontà da persone provenienti dalla nostra civiltà moderna?

Dopo un lavoro di free-lance durato dieci anni nel 2002 fondai, insieme alla mia compagna ed a degli amici, la ONG Iniciativa Amotocodie (IA). Ha lo scopo di proteggere i vari gruppi isolati degli Ayoreo (che vivono al nord del Chaco paraguaiano) dalla deforestazione massiccia causata dagli allevamenti intensivi e dalla industria agro-alimentare, come anche da altre minacce causate ad esempio dalle trivellazioni petrolifere, dalla speculazione latifondista, dalla spoliazione della terra, dal traffico di droga, dai missionari.

Lo stato dell’arte è drammatico e violento ma lo è in un modo silenzioso e quasi invisibile. Una parte importante dei nostri obiettivi consiste nella sistematizzazione ed informazione all’opinione pubblica di quel che sappiamo di loro: come vivono e come si relazionano alla natura ed al mondo. E’ noto che il loro paradigma vitale è totalmente differente dal nostro, da quello della moderna civilizzazione. E che quindi potrebbero rappresentare una forma di stimolo vitale per riflettere sulla nostra vita individuale e sociale, sul nostro futuro, sulla nostra relazione proprio con la natura ed il mondo. La loro presenza sul nostro pianeta e quel che significa, anche se molto marginale, costituisce una parte vitale dell’umanità del presente. Pensa soltanto all’abilità che hanno – a differenza di noi – di coesistere con la natura senza sfruttarla e distruggerla!

 

 

Tu come lettore. Che luoghi, che bisogno, che libri ora con te?

Leggo con passione e sempre, analisi sull’esistente (un esempio: gli scritti di Gustavo Esteva, Messico), saggi teoretici (un esempio: Ivan Illich, uno dei pensatori più importanti del secolo scorso, dovrebbe essere letto di più), e molti romanzi – incluso gialli. I romanzi – e fino ad un certo punto anche i film – aprono mondi, presenti o passati, e ci aiutano a capire il presente. Di recente stavo leggendo Jack Kerouac, Paul Auster e Jane Austen. E stavo recuperando un po’ del mio italiano (la lingua della mia infanzia), con La mossa del cavallo di Camilleri, un romanzo ambientato nella Sicilia del passato (un’isola dalle tante ispirazioni), e, con un particolare interesse, Morte di Un Uomo Felice di Giorgio Fontana: riguarda la violenza politica e la resistenza di un certo passato italiano (Slow Words ha intervistato Giorgio Fontana in occasione della sua vincita del Premio Campiello 2014 che abbiamo esplorato da molte angolazioni….).

 

 

Qual è la musica con te adesso ed in generale cosa ti piace ascoltare?

Cammino molto per tenermi in allenamento, e mentre lo faccio ascolto musica. Ad esempio Glenn Gould che suona Bach, oppure le sonate di Beethoven. Mi piace molto ascoltare la pianista Yuja Wang su YouTube. Molti eventi del passato sono associati a brani musicali – si di classica sia di musica folk che di famose hit da classifica – e ascoltandoli posso ritornare ad essi quando ne ho voglia.

 

 

Cibo e bevanda preferiti?

Cibo italiano, pasta, risotto ma anche semplicemente del vino rosso, formaggio di capra e pane fatto con la farina Tumminia (uno speciale grano duro che viene dalla Sicilia)

 

 

Il posto segreto nella tua città attuale (oppure altrove) dove ti rifugi per nasconderti dal rumore quotidiano, oppure per una piccola evasione o semplicemente per rallentare il passo?

In ogni città, cerco di trovare una riva o un lungomare, un lungo fiume o un parco dove camminare, ascoltare musica mentre osservo quel che mi circonda: le cose della natura, le persone…

 

 

Cosa hai imparato, sin qui, dalla vita?

Sto ancora imparando, quindi posso solo dirti di queste:

  • Le persone, ma anche i popoli (pueblos, società) sono entità organiche non macchine; siamo esseri viventi e siamo parte di qualcosa di più grande che è anch’esso vivente;
  • Dagli indigeni, e dalle nostre culture tradizionali e dai loro modi di vivere, possiamo trarre ispirazione che ci aiuta a discernere ed analizzare il nostro modo di vivere, per riattivare circuiti ed abilità che abbiamo (culturalmente) dimenticato. Questo non significa certo ritornare nel passato; significa semplicemente diventare di nuovo più completi.

 

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