Ibrahim Nehme, giornalista, Beirut

La tua vita in poche righe, sin dall’inizio

In realtà sono diventato giornalista per caso perché non sapevo cosa fare e cosa volevo studiare. All’inizio volevo fare film ma i miei genitori erano contrari a questo e non finivano di dire che sarei diventato un barbone, senza casa e per strada! Così sono finito in una business school per laurearmi e uscire a fare altro.

Uno dei corsi di marketing all’università che frequentavo è stato tenuto da un’insegnante molto stimolante e una volta mi ha detto (giudicando un articolo che era parte di un progetto): “Ibrahim sei un ottimo scrittore!”. Non mi era mai venuto in mente di poter scrivere, ma quell’esperienza in qualche modo mi ha messo completamente su un’altra strada: uno, mi sono reso conto che potevo effettivamente scrivere; due, ho finito per essere messo in contatto con una pubblicazione. E ho iniziato a scrivere per loro quando stavo studiando; ho anche iniziato presto a scrivere per altre pubblicazioni, quindi sono diventato un giornalista.

Da bambino, sono cresciuto in un piccolo villaggio vicino al mare nel nord del Libano, vicino a Tripoli. Quando compii diciotto anni andai a studiare a Beirut. I miei genitori erano in Arabia Saudita e quando tornarono in Libano la guerra divenne così folle che si trasferirono in campagna.

Mi è piaciuto il lavoro giornalistico per un po’, poi ho lavorato nella pubblicità e poi, quando l’energia della Primavera Araba ha iniziato a bollire ovunque, ho sentito che lavorare con queste pubblicazioni è assai irrispettoso per l’intelligenza dei lettori – alcune riviste ad esempio ricevono comunicati stampa dalle aziende e li pubblicano intatti senza alcuna critica.

Sentivo anche che c’era la mancanza di una piattaforma in grado di catturare l’energia di questo mondo e dei giovani arabi, per far capire loro dove stavano andando.

Quando parli di mondo arabo, c’è sempre una narrazione a un canale che racconta di una regione devastata, dilaniata dalla guerra in cui mancano le opportunità.

Volevo rappresentare una narrativa più piena di speranza, è così che è nata l’idea di The Outpost ed è per questo che è stata definita ‘la rivista delle possibilità’.

Abbiamo lanciato il primo numero a settembre 2012 (sei anni fa) ed è stato un vero esperimento, come molti dei miei progetti: abbiamo chiamato il primo numero 0 e abbiamo aspettato per vedere quale potesse essere la risposta. È stato molto positiva e così abbiamo provato con un altro numero ed ancora un altro. Erano tutti esperimenti perché non avevamo un modello editoriale. All’inizio abbiamo cercato di trovare inserzionisti che non sono arrivati, quindi lo abbiamo sovvenzionato interamente con il crowd-funding oppure abbiamo ricevuto sovvenzioni dalle istituzioni per andare avanti.

 

 

È possibile questo in Libano o sei costretto ad andare in altri paesi?

Ci sono fondi come il Fondo arabo per l’arte e la cultura e altri, da cui non ho mai ricevuto sovvenzioni (ma ho pubblicato due libri per loro), ho ottenuto un sostegno da organizzazioni di Amsterdam come il Prince Claus Fund. Abbiamo realizzato profitti con la pubblicazione di libri e li abbiamo invertiti sulla rivista.

 

 

Il Prince Claus Fund sembra molto attivo in Libano, abbiamo recentemente intervistato una regista siriana che ha girato in Libano e il cui film (presentato in anteprima e premiato al Festival del Cinema di Venezia) è stato sostenuto da una sovvenzione della stessa organizzazione.

Sostengono molto il cinema, infatti!

 

 

Ci sono altre riviste che ottengono finanziamenti forse perché sono più grate ai poteri reali in Libano? Per dirla in un altro modo: c’è qualche possibilità di pubblicare ancora riviste che sono meno a loro agio con il potere politico nel paese?

In Libano il panorama dei media è molto controllato. Potenti società di media e altre fonti di informazione fanno parte del sistema quando non è direttamente il governo a pubblicare attraverso un sistema molto limitato di licenze stampa o tv (di proprietà di politici da cui è necessario acquistarli per fondare un nuovo media).

Quando andai ai centri media a chiedere di cercare pubblicità per The Outpost, una donna che lavorava lì mi disse “Se voglio vendere la tua rivista ho bisogno di una guida per spiegare ai miei clienti di cosa tratta”.

Sono abituati a questo tipo di giornalismo facile ed economico e non si aspetterebbero che qualcuno entri in un negozio e compri una rivista di qualità. Sto parlando naturalmente delle principali agenzie di stampa.

Ho sempre avuto problemi ad accedere ai soldi necessari, ma questo non mi ha impedito di fondare la mia rivista. Ovviamente il sistema non è fatto per persone come me che vogliono presentare una nuova voce.

 

 

Desidero per un attimo tornare al significato del titolo di The Outpost: dall’inglese, avamposto è la parola che può significare un luogo in cui difendersi o da dove attaccare.

Sì, ma esiste anche il sottotitolo, “rivista di possibilità” che significa cose che potrebbero accadere prima o poi.

Spiegarti il nostro nome significa doverti raccontare una storia buffa!

Abbiamo iniziato a progettare la rivista, a dettagliare la distribuzione e a raccogliere storie e così via, ma improvvisamente abbiamo pensato che non avevamo ancora un nome per la pubblicazione, anche se ci aspettavamo di dover stampare il primo numero molto presto!

Raafat (il mio migliore amico e il direttore creativo in quel momento) e io ci siamo incontrati nel campo di calcio di un campus universitario: era nuvoloso, sembrava post-apocalittico!

Ci siamo spinti a trovare un nome e mi stava chiedendo se ho ascoltato questa canzone di Friendly Fires, chiamata Paris, che secondo lui cantava “stiamo guardando le stelle dall’avamposto”.

Gli dissi che “l’avamposto” era un ottimo nome, perfetto!

Sull’onda dell’entusiasmo, quando sono tornato a casa, ho cercato su google il testo ma non ho trovato nessun ‘avamposto’ nelle parole … in effetti stava dicendo ‘stiamo guardando le stelle che erano fuori per noi’ ma lui ha capito l’avamposto e così abbiamo in ogni caso avuto il nome!

 

 

La tua lingua fin dall’inizio era l’inglese, questo perché volevi essere letto anche all’estero … e per esportare la tua visione del mondo arabo altrove, ma potrebbe essere fatto anche per gli espatriati che vivono lì.

Questa domanda mi ha ricordato un pensiero che ho perso prima quando rispondevo a una domanda precedente! Pubblicare in inglese ti permette di fare molto rispetto a ciò che è pubblicato in arabo perché il governo pensa che qualcosa in inglese e in francese non sia una minaccia per l’opinione pubblica nel nostro paese e ti lasciano fare qualcosa. Queste persone istruite che possono consumare i loro media in inglese e francese sono irrilevanti in termini di cifre per i controllori e non possono influenzare in maniera massiccia gli altri.

La scelta di pubblicare in inglese è stata molto naturale per tutti noi, perché abbiamo frequentato scuole americane da bambini (la scelta linguistica nel nostro paese è da subito l’inglese o il francese, anche nelle scuole pubbliche). Era una cosa naturale da fare e volevamo fare appello a persone come noi, ma anche raggiungere un pubblico internazionale per rompere gli stereotipi sulla regione.

Dopo alcuni anni di pubblicazione ho sentito il limite di una rivista pubblicata in inglese. Se volevamo creare cambiamenti nel nostro paese, e non all’estero, dovevamo cambiare.

Nell’ultimo numero pubblicato abbiamo deciso di avere una versione interamente araba. La scelta era anche quella di regalare gratuitamente quella versione.

L’ultima pubblicazione era sul tema della “casa”.

La rivista aveva sempre tre sezioni come segue:

Cosa sta succedendo

Cosa non sta succedendo

Cosa potrebbe accadere

All’interno di queste tre sezioni abbiamo sempre giocato con i contenuti attorno a un tema, l’ultimo, come detto, era “casa” (la possibilità di trovare casa).

Quando abbiamo iniziato a pensare alla versione araba di quel numero, in arabo abbiamo almeno dieci parole per tradurre casa. Così abbiamo chiesto ad un gruppo di scrittori come avrebbero tradotto “casa” in arabo. E sono venuti tutti con definizioni diverse che sono state usate da ognuno di loro per costruire le proprie storie.

 

 

Erano tutti arabi ma di posti diversi, quegli scrittori?

Sì. Religiosi o non religiosi. Uno forse ha toccato la spiritualità, ma il nostro numero sulla casa era principalmente di geografia o sulla politica. Molti di loro sono stati toccati dall’essere rifugiati, come in Palestina, in Algeria o in Siria. Ad esempio, c’era un ottimo pezzo che tracciava la storia dell’Algeria.

 

 

Perché il colore giallo del numero con tema “casa”?

Ogni nostro numero ha avuto un colore diverso, l’ultimo era giallo. Abbiamo usato sempre e solo due colori perché era più economico nei budget di stampa.

 

 

I lettori potevano scrivere una lettera alla tua rivista? C’è qualcosa che vuoi ricordare per noi?

Sì, avevano la possibilità di scriverci, ho ricevuto alcune lettere e le ricordo insieme a vari incidenti nella mia memoria. Quando abbiamo iniziato a pubblicare, ho ricevuto questo messaggio su Facebook da una donna di nome Shereen che ci scriveva dal Cairo e ci stava raccontando di come fosse così ispirata da noi che aveva deciso di fondare la sua pubblicazione letteraria al Cairo. Questo è stato il primo messaggio che abbiamo ricevuto! E ‘stato davvero un super wooow per tutti noi!

Puoi quindi vedere quanto la scrittura e le pubblicazioni possono influenzare positivamente gli altri.

Una volta a Berlino, qualcuno mi ha messo in contatto con un cineasta libanese che viveva lì. Trovo a caso la rivista in un bar a Berlino, davvero per caso. Non sapeva nulla della pubblicazione e, stupito dopo averla letta, aveva pubblicato qualcosa su FB, un amico leggeva il suo wall e mi inviò quel messaggio.

Così ci siamo incontrati e mi disse che gli piacque così tanto il numero di The Outpost dedicato al “corpo” (pubblicato prima di quello sulla “casa”) che ha deciso di chiamare un centro per le donazioni di organi a Beirut e donare i suoi organi.

Ho ricominciato quindi a pensare all’impatto che una pubblicazione può avere (ad un livello minimo se prendiamo in considerazione il mio che non è un titolo mainstream) e ho proiettato questo impatto alla portata dei media mainstream (non solo in stampa e online). Soprattutto in arabo.

Due anni fa, soprattutto per queste considerazioni e per avere una nuova visione e sapere come arrivarci, abbiamo smesso di pubblicare The Outpost e abbiamo cercato di guardare dentro di noi per affrontare questo elemento cruciale.

 

 

Stai pensando a un nuovo modello in questo momento. Hai ancora fiducia nella carta?

Sì. Ho ancora fiducia nella carta e non pensavo che la rivista avrebbe potuto raggiungere la sua posizione se fosse stata solo online o in un formato diverso. La carta dà un valore che altri media non danno specialmente in questi tempi in cui le notizie sono spesso vera e propria spazzatura.

 

 

Che mi dici di una versione digitale di quelli già stampati o di nuovi per tagliare i costi e per essere sempre pubblicati?

Molte persone ci hanno chiesto la stessa cosa. La semplice ragione è che i pdf sono stati fatti per un’esperienza di lettura, per essere messi online richiederebbe una riprogettazione totale per una fruizione online. Questo costa denaro che non abbiamo al momento.

Ho molte idee per continuare l’esperienza di The Outpost e ancora non so dove questo processo potrà portarmi. A giugno abbiamo lanciato una radio online, abbiamo ricevuto feedback molto positivi e il podcasting sta diventando una grande cosa.

Sento che la radio è uno spazio che possiamo intrecciare con un sacco di cose che accadono intorno allo stesso tempo. Abbiamo anche finito di fare laboratori di scrittura con bambini svantaggiati. Sono venuti da noi e abbiamo fatto quattro workshop con loro a Beirut (per scrivere ‘storie della buonanotte’). Non sono mai stati messi in uno spazio dove espandere la loro immaginazione prima di questo seminario e, per esempio, una radio è perfetta per questi scopi senza menzionare che è perfetta per leggere storie!

E’ anche importante che una radio è un media molto economico! Stiamo anche sondando come costruire un palinsesto 24 ore su 24 coinvolgendo intere comunità a Beirut. Abbiamo cercato sovvenzioni per realizzarlo, ma anche se non sono venute, siamo riusciti a realizzarlo da soli.

Vivo a Beirut e ho molto più senso, non a Berlino – dove la rivista è stata sempre stampata e distribuita (perché costava meno e perché il maggior numero di lettori era in Europa e non in Medio Oriente).

 

 

Che ne pensi della scena per riviste lifestyle a Beirut?

C’è una scena, e anche molto grande! La gente continua a chiedermi di riportare in vita The Outpost. C’è una grande richiesta perché Beirut è una città cosmopolita. La mia amica Jade pubblica una rivista alimentare che cerca di descrivere l’identità del paese attraverso il cibo. Sta anche aprendo un negozio che vende non solo la rivista ma il suo piccolo universo. Sta per aprire anche un bed & breakfast, penso che questo sia il percorso – per creare un ecosistema attorno alla pubblicazione per renderla economicamente più consistente. Anche per catturare i lettori ‘sul posto’.

 

 

Che dire degli eventi (o di un bar) come una strategia per la raccolta fondi?

Li ho sperimentati nella versione radio. E riguardo al bar, è una buona idea a Beirut, grazie!

Volevo fare qualcosa con la poesia, non so ancora cosa. In Kenya stavo lavorando con una ONG italiana e bambini problematici che sono perfetti poeti.

Se vuoi influenzare l’opinione pubblica – e in questi momenti abbiamo davvero bisogno di un grande cambiamento nella nostra coscienza, il pianeta sta esplodendo e molte sono le questioni più urgenti – il modo più semplice può essere in forma di canzoni, o poesia. Questa potrebbe essere la chiave del successo.

 

 

Qual è il luogo preferito o speciale, o un luogo segreto, dove vai spesso a rilassarti, a leggere in pace o a ricaricarti a Beirut?

Vado all’università americana dove mi sono laureato, è molto vicino a casa mia e penso che abbia uno dei campus più belli che abbia mai visitato, almeno tra quelli che conosco!

È tutto situato in un posto solo ed è come un parco. È in realtà accanto al più grande parco di Beirut, che una volta era chiuso e ora è aperto ma con un enorme mucchio di regolamenti da rispettare.

 

 

Immagino già quello che hai regalato alla tua città adottiva, Beirut, con la tua rivista, ma non immagino quello che Beirut ha donato o dato a te?

Mi ha dato lo spazio per sperimentare tutto questo, mi ha permesso di farlo e sono cresciuto come persona diversa grazie ad esso.

 

 

Un talento che hai, uno che ti manca

Anche quando stavo pubblicando la rivista e scrivendo per altre pubblicazioni a parte la mia, non mi consideravo mai uno scrittore. In ogni caso mi sentivo sempre un impostore: ora sento di essere uno scrittore e ho sviluppato un’abilità. Ho anche scoperto di recente che posso scrivere poesie in arabo e in inglese. E sento di voler fare qualcosa con la musica (a Berlino frequentavo laboratori musicali con software, voglio tornare a fare anche quello). Sento che anche cantare aiuta molto a migliorare le tue capacità comunicative e voglio praticarlo.

 

 

Non posso che chiederlo anche a te: cibo e bevanda preferiti?

Adoro l’arak che è la nostra versione di bevanda all’anice.

Adoro berla accompagnata dalle nostre versioni di “tapas”, chiamate mezze, una combinazione perfetta!

 

 

La musica e il libro con te in questi giorni?

Sto leggendo un libro intitolato Alif the Unseen di G. Willow Wilson che la mia amica e collaboratrice – americana di origini indiane – mi ha dato l’ultima volta che era a Beirut, è una fiction e non l’ho letto da qualche tempo (ci siamo incontrati a Venezia e ha lasciato il libro a Beirut). È la storia di un programmatore ambientata in Medio Oriente.

Ora sono molto interessato alla musica elettronica per poter fare questa musica anche autonomamente. Quando vedi i dancefloor puoi facilmente pensare che sia un modello di interazione perfetto per il nostro futuro.

 

 

Dove ti vedi tra dieci anni, dato che sei ancora molto giovane, avendo soltanto 32 anni …

Non lo so. Forse ancora in Medio Oriente, con Beirut come base per viaggiare, che è una cosa che amo tanto fare.

Mi piacerebbe scrivere un libro e forse in dieci anni riuscirò a scriverlo e pubblicarlo

Forse in dieci anni avrò trovato la chiave per l’assetto multimediale ideale per pubblicare nuovamente The Outpost, è solo una questione di tempo circa come, dove e perché.

 

 

C’è qualcosa di speciale che hai imparato dalla vita finora? Questa domanda è normalmente la più difficile per ognuna delle nostre persone intervistate di questo mondo …

Diciamo sempre, come parte di questa cultura, che più sforzi metterai in qualcosa, più in alto arriverai.

Sento che questa cultura glorifica davvero la lotta. Dobbiamo lottare, fare tanta fatica e ancora tanta fatica per fare qualcosa!

In realtà ho realizzato che è vero il contrario: più il processo è facile, gioioso e divertente, migliore sarà il risultato. E ho imparato questo nel modo più duro!

 

 

Per saperne di più su The Outpost (lingua inglese): http://magheroes.net/2-ibrahim-nehme/

La storia di Ibrahim Nehme (già un’idea sul nostro desk sin dal 2015) è stata suggerita da uno dei nostri lettori svedesi, Livia Podestà, e realizzata a Venezia in occasione di una visita di Ibrahim in città.

Il ritratto di Ibrahim Nehme (ph. Diana Marrone) è realizzato in una struttura architettonica temporanea finanziata dallo Swedish Institute in occasione della Biennale di Architettura 2018.

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