Il meraviglioso viaggio di Octavio

Nel porto di La Guaira, il 20 agosto 1908, una nave proveniente da Trinidad gettò l’àncora sulle coste venezuelane ignara di gettare su di esse anche una peste che avrebbe impiegato mezzo secolo ad abbandonare il paese. I primi casi si verificarono sul litorale, tra i venditori di pagri e i mercanti di cocciniglia. Seguirono poi i mendicanti e i marinai che, alle porte delle chiese come a quelle delle taverne, allontanavano miserie e naufragi a forza di preghiere. Trascorsa una settimana fu issata la bandiera di quarantena e stabilito che si trattava di un’epidemia nazionale. La seconda settimana le autorità aprirono la caccia ai ratti e per ogni bestia morta pagarono una moneta d’argento. La terza settimana isolarono i malati per fare dei prelievi ed estirparono gangli grossi come uova. Nel giro di poco tempo si videro i primi fuochi nei cortili e i fumi di zolfo uscire dalle baracche. Di lì a un mese, quando la malattia si avvicinò alle porte della capitale, fu portato in solenne processione il primo santo di legno.

Alcuni fedeli bloccarono i vicoli di un villaggio nei pressi di Caracas. Accompagnavano, tra salmi e canzoni, l’effigie del Nazareno di San Paolo, vestito con una tunica color malva ricamata d’oro, caricato su stanghe d’argento e condotto a spalla verso le infermerie da alcuni mulatti. Così ricoperto di orchidee, con la corona di spine sulla testa, circondato da campane e simboli vari, il santo non si distingueva quasi più. Chi faceva capolino dalle porte si trovava di fronte un corteo di donne e uomini che, strada dopo strada, continuava a crescere al ritmo di trombe e tamburi. Il Nazareno veniva fatto passare sotto i portici delle case da cui uscivano donne in camicia da notte che, sudate in fronte, gli tendevano le braccia mormorando parole simili a lamenti.

Tra queste case, ai piedi di una montagna, c’era quella di un creolo che davanti alla sua siepe aveva piantato un robusto limone, vecchio quanto lui, i cui frutti si confondevano con il vischio del fogliame. La processione si era avvicinata. Il creolo era uscito con un fucile a colpo singolo e un grappolo di cartucce sottobraccio. «Il primo che oltrepassa la siepe è un uomo morto» aveva urlato dal parapetto. «A cominciare da quello che state portando a spasso. Così vediamo se i santi non muoiono».

I mulatti fecero dietrofront senza discutere. Ma al momento di andare, la corona di spine rimase impigliata a un ramo dell’albero. Il creolo imbracciò l’arma e, imprecando, sparò un unico fragoroso colpo che risuonò a lungo nella montagna. La pallottola staccò la statua dal ramo, scosse il fogliame e fece cadere sulle teste, come una pioggia di bubboni verdi, centinaia di limoni che rotolarono fino agli usci delle case.

Si gridò al miracolo. La polpa giallognola venne usata per le infezioni, le scorze furono fatte essiccare e poi cosparse sul pesce, e con l’acidità degli oli si purificò l’aria. Il limone fu mescolato allo zenzero in pentole che, porta dopo porta, passarono in tutte le alcove, fornendo cure che duemila anni di medicina non erano stati in grado di offrire. In dieci mesi furono respinti dieci anni di peste.

Questa è la storia del limone del Signore, più o meno come la racconta la penna del poeta Andrés Eloy Blanco nei libri del mio paese.

 

Ebbene, la casa del vecchio creolo venne rasa al suolo e di fronte al limone fu eretta una chiesa con i muri in pietra e uno sporco tavolato. La chiesa prese il nome dal villaggio: San Paolo del Limone. Era una basilica umile, senza organo né ornamenti, dal soffitto perlinato, che si apriva su un cortiletto dove crescevano melograni. Nell’acquasantiera non mancava mai l’acqua. La navata faceva riecheggiare i cantici fin nei dintorni del villaggio. Le vetrate narravano agli analfabeti le passioni e i supplizi del calvario, mentre fuori il caldo opprimente obbligava a tenere chiuse tutte le porte fino all’ora dei vespri.

Nessun papa venne mai a consacrare l’altare e l’abside. Nessuna scultura venne mai ad abitare il chiostro. L’effigie del Nazareno di San Paolo fu addossata a uno dei pilastri della navata e le donne si alzavano prima dell’alba per mettere qualche soldo nella cassetta delle elemosine. Molti pellegrini arrivavano da lontano per raccogliersi davanti alla statua. La voce giunse alle abbazie. Cominciarono ad apparire monaci, cercatori d’oro e perfino un curato, che profumava di mandorla e noce moscata, non conosceva il latino e si occupò di custodire la reliquia.

Al primo omicidio del villaggio, con le stesse pietre furono costruiti la prima prigione e il primo cimitero. Nei vicoli affluivano ladri e vagabondi, che puzzavano di legno e degrado, ma anche uomini zelanti incamminatisi dalla città per fare acquisti a buon mercato. Erano montanari e carovanieri, erano cristiani spinti dalla promessa di un qualche arcivescovo, erano nomadi. Si fermavano alcuni giorni per mangiare qualcosa di caldo. Ripetevano tutti di essere solo di passaggio. Visitavano le mense e gli alloggi, sorridevano a una dolce locandiera e alla fine rimanevano per sempre. Ai margini di un piccolo terreno innalzavano allora un mulino, vicino a una gola d’acqua aravano un orto e, sotto un cielo tondo che faceva rotolare il sole, si abbandonavano senza opporre resistenza a un tempo che non conosceva stagioni.

La gente prese l’abitudine di misurare l’importanza di una casa dal numero delle sue finestre. Il nome delle strade, intitolate a quelli che le abitavano, veniva scritto su tavolette di legno. In via dell’Ospedale c’era l’ospedale, in via delle Sorelle c’era il convento, in via Doctor Dominguez viveva il venerabile dottor Dominguez, e in via dei Cornuti, che non aveva niente a che vedere con l’onestà delle signore, c’era il mattatoio dove si scaricavano le corna del bestiame.

Tutto era musica e frastuono, nebbia e sole. I canali di irrigazione diventavano fiumi di fango nei quali i maiali facevano lunghe sieste e neanche le piogge tropicali, pur cadendo a dirotto, riuscivano a pulirli. In lontananza si sentivano i manghi schiantarsi al suolo e i galli combattere nei gallodromi. Il vento portava con sé il rumore dei buoi che con i loro zoccoli sollevavano la polvere, e le piazze erano luoghi di discussione, di divertimento e passeggiate. I commercianti si riunivano sotto tendalini in foglie di cocco per dare vita ai primi mercati. Si udiva l’ansimare delle bestie che risalivano il pendio cariche di chiodi di garofano e peperoncini verdi, di inchiostri e perle, il dorso ricurvo sotto gabbie di pappagalli. Gli scrivani pubblici facevano pagare a caro prezzo le lettere d’amore, gli anziani contavano i mesi in grani di mais e i mercanti narravano leggende ai bambini per allontanarli dalla notte. Erano anni semplici e timorosi. All’epoca il villaggio era minacciato solo da superstizioni e credenze popolari, tanto che sul finire della sera si vedeva spesso un uomo con il fucile in spalla, in groppa a una vecchia mula, fare un’ultima ronda attorno alla piazza.

Con il tempo, il fianco folto e rigoglioso della collina si riempì di catapecchie e caseggiati, segno dell’incessante comparsa della vita. Anno dopo anno si vestì di pietre e si popolò di uomini fuggiti dalla miseria delle grandi città. Salivano fin sulla cima della collina e, trovato uno spazio incolto lontano dagli altri, vi costruivano una casa in lamiera ondulata. Con l’espansione dei quartieri fu necessario organizzare elezioni democratiche per la nomina di presidenti e consiglieri. Il mercato nero faceva concorrenza ai vecchi esercizi, mentre l’ombra dei platani dava riparo a donne che ora l’alcol, ora le disgrazie avevano lasciato senza marito.

Le antiche leggende spinsero fuori di casa i bambini. Molti si ritrovarono coinvolti nel contrabbando, un po’ per paura di essere esclusi, un po’ perché a volte era più pericoloso non prendervi parte. Le notti erano agitate, ribelli, spesso dietro un vicolo si macchiavano di un crimine. Le ragazze rimanevano incinte giovanissime e abortivano con un cucchiaio fatto bollire in una pentola. La rabbia tracciava i suoi percorsi. Ahimè, per le bidonville venezuelane i santi non passavano. A quella tavola non sedevano. Non partecipavano alla lenta e desolante costruzione della felicità dei poveri che, con la testa rivolta verso la luce, sgranavano un rosario di noccioli di olive e tendevano tutti i sensi per ascoltare il cielo rispondere alle loro preghiere.

Un giorno la statua del Nazareno sparì e nessuno parve accorgersene. Da quel momento le porte della chiesa rimasero spesso chiuse. I banchi non furono più spolverati, il tavolato non fu più pulito né i matronei in – fiorati. E allora i pellegrini dovettero condurre le loro storie e le loro eredità per altre strade.

Giunta la stagione delle piogge il limone fu abbattuto, la sua corteccia si era riempita di vermi come la città si era riempita di uomini. Ci vollero molti mulatti per trasportare l’albero in processione fino a un terreno isolato. Nessuno accompagnò il corteo, nessuno fece capolino dalle porte. Non lontano dalle case venne acceso un fuoco che riportò alla memoria la peste di un tempo. Il fumo offuscò il cielo per tre giorni. Le campane suonarono a stormo per l’ultima volta. E così, a mezzo secolo dall’arrivo della nave proveniente da Trinidad, rimasero solo un forte odore di limone e una chiesa eretta tra i cipressi, come un palo triste e solitario, in piedi su una terra senza avi.

 

Miguel Bonnefoy (Francia/Venezuela, 1986), leggi l’intervista allo scrittore qui

 

Il meraviglioso viaggio di Octavio, 66thand2nd, Roma, 2015 (capitolo primo) – isbn 978-88-98970-21-6

Traduzione di Francesca Bononi, opera pubblicata con il sostegno dei Programmi di aiuto alla pubblicazione dell’Institut Français

 

Per saperne di più ed acquistare il libro:

http://www.66thand2nd.com/libri/145-il-meraviglioso-viaggio-di-octavio.asp

 

Immagine di copertina: Noosa di Adam Meredith, 2016

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