Mattia Cason, Ljubljana


Il secondo da sinistra tra gli attori che reggono la bandiera è Mattia Cason.

E’ autore e starring character de Le Etiopiche: uno spettacolo che mi ha emozionata, commossa e ispirata come mai accadeva da tempo. Non ricordo neanche più quando l’ultima volta.  

Questo sceneggiatore, regista e danzattore poco più che trentenne – che per la compagnia slovena ENKNAP, con cui lavora, ne ha curato la coreografia – ha vinto l’ultimo Premio Scenario, uno dei riconoscimenti europei più importanti per gli under 35.

Abbiamo avuto una lunga e piacevolissima conversazione telefonica mentre Mattia si stava spostando a Novi-Sad. 

Anche subito dopo lo spettacolo, a caldo, abbiamo conversato. Mattia è uscito sudato e scalzo dai camerini in strada per parlare con il suo pubblico assiepato nei vicoli stretti dei Quartieri Spagnoli (ho assistito alla replica al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli). 

Ha ascoltato le innumerevoli domande, ha raccontato di come questo lavoro di 80 minuti in greco, persiano, tedesco, yiddish, arabo e italiano che da solo spiega l’attualità meglio di un corso di politica internazionale, sia nato.

Era stupito anche che sia stato accolto in modi tanto differenti a seconda del paese dove è stato performato e delle date in cui si sono svolte le repliche: prima dei venti di guerra nel cuore europeo e poi durante la guerra guerreggiata in Ucraina. Infine accenni ai fascismi politici rampanti nel testo sono stati percepiti in maniera molto diversa sia dal pubblico che dalla critica.

Va detto: Mattia sudato e scalzo ha anche raccolto altri numerosi applausi in strada, en plein air. Le Etiopiche ha emozionato un intero teatro.

Questo spettacolo è così colto da mischiare la storia dell’Eurasia (che dovrebbe essere e non è) alle tragedie di oggi. Lo fa – scoprirete tutto leggendo la trascrizione della nostra conversazione – con linguaggi diversi (la parola, il video, le immagini, la danza) oltre che le diverse lingue di cui si nutre.

#slowwords non è nuovo alla parola per il palcoscenico e ha spesso ospitato le idee di tanti drammaturghi e le loro ricetta sul teatro dell’oggi (le giovani generazioni in particolare).

Tra i theatre makers più longevi e più famosi, le nostre pagine letterarie hanno ospitato (agli esordi della nostra pubblicazione, nel 2014) la conversazione con una vincitrice del Premio Scenario di diverse edizioni fa (Sara Sole Notarbartolo), la forza di Mark Ravenhill anche pedagogo, che vuol dire teatro musicale secondo Amir Vahidi, che vuol dire teatro di barricata secondo Susie Dee/Patricia Cornelius, ed ancora la storia della Avogaria dalle parole di Stefano Poli, l’incredibile realtà di Bustheater con la fantastica Ilaria Cecere e tanti altri che ci indicano, spesso, la via. Seguite le tag teatro, theatre makers, creatori di mondi per leggerle.

Il teatro è vita, il teatro è tempesta e approdo sicuro, il teatro è scrittura con ogni mezzo possibile ed anche oltre.



La tua vita in poche righe

Sono nato a Belluno l’11 marzo 1989, ho da poco compiuto 33 anni. Ho vissuto a Belluno fino alla fine delle superiori e poi sono andato a fare il servizio civile volontario europeo in Ghana per tre mesi: prestavo servizio in un centro di riabilitazione per persone diversamente abili dove insegnavo inglese e matematica. 

Lì ho capito che mi sarebbe piaciuto fare esattamente quello che stavo facendo usando il teatro. Ho quindi studiato teatro alla Nico Pepe di Udine dal 2009 al 2012 e proprio alla scuola di teatro ho scoperto che il ‘teatro-teatro’ quello col tavolino e lo studio psicologico dei personaggi non mi piaceva. 

Ho scoperto il corpo, ho avuto l’occasione di andare a studiare danza in Israele dove sono rimasto, dopo gli studi fino al 2019 – anche sei sarei dovuto restarci solo un anno!

Due anni e mezzo fa sono tornato in Europa e, da poco più di uno, lavoro come danzatore in una compagnia di Ljubljana, En Knap.

Parallelamente al teatro e poi alla danza, dopo le superiori ho studiato Antropologia con una triennale a Siena ed una magistrale a Bologna: adesso sono iscritto ad una seconda magistrale all’Orientale di Napoli dove apprendo (da non frequentante) anche arabo e aramaico. 

La voglia è sempre stata quella e con Le Etiopiche sento di avere fatto finalmente il primo passo in questa direzione: fare l’antropologo di fatto e di consegnare il lavoro di ricerca non sotto forma di testo scritto ma di spettacolo teatrale, con tutte le possibilità di mezzi e linguaggi che il palcoscenico consente. La danza, la recitazione ma anche i contributi video.

E’ una forma che abbiamo trovato anche in altre arti, ad esempio l’arte visiva contemporanea dove molti artisti lavorano allo stesso tuo modo, su un corpus che include creazione dottorale per spiegare grandi fenomeni, approfondire alcune situazioni (anche geopolitiche) sotto forma di lectures che sembrano un po’ spettacolo, un po’ informazione. Secondo me è una chiave adatta per intercettare nuovi pubblici che altrimenti non conoscerebbero queste dinamiche, queste storie e in alcuni casi enormi tragedie per il genere umano. Nel caso vostro, Etiopiche è quasi esplosivo se visto in questo momento storico.

Il Premio Scenario vi ha catapultati in una posizione ancora più politica con la guerra all’interno dell’Europa a 27, che in teoria avrebbe dovuto esprimere il climax della democrazia rappresentativa ed invece no. Che effetto vi fa questo viatico sinistro ed ingombrante, ci avete riflettuto o vi siete solo concentrati sulla grana culturale e tersicorea dello spettacolo?

Quando abbiamo fatto un’anteprima in Italia a Vicenza il 5 marzo, era la prima volta che facevamo una replica dopo lo scoppio della guerra ed il teatro dove andavamo in scena aderiva ad una protesta simbolica ideata da tutti i teatri italiani di accendere una sirena prima dell’inizio dello spettacolo. 

Io personalmente, come hai potuto vedere, all’inizio dello spettacolo sono dietro al sipario vestito da Wittgenstein che (a livello narrativo) torna dal Fronte Orientale della prima Guerra Mondiale situato a Lviv (Leopoli). Mi ha fatto abbastanza impressione andare in scena per raccontare questa storia di 100 anni fa e sentire questa sirena di guerra negli stessi luoghi.

Lo spettacolo è stato pensato e ‘lavorato’ prima di questa guerra, nelle intenzioni non vi ha alcun rapporto ma sicuramente il rapporto lo trovi nel proporre un’Europa diversa, che non dovrebbe aver bisogno di una minaccia esterna (in questo caso un’aggressione da parte della Russia) per sentirsi improvvisamente unita e ‘comunità di intenti’. 

La sfida che sembra essere molto difficile – non per gli europei ma per l’uomo in generale – è riuscire ad entusiasmarsi della possibilità di una comunità più grande di una nazione non in tempi di crisi ma nell’orgoglio europeo di quasi settanta anni di pace fatta eccezione per la guerra in Jugoslavia. 



E fatta eccezione per alcuni teatri dove la Russia ha portato la guerra negli ultimi 20 anni: penso la Georgia, la Moldavia, oltre l’Ucraina…

Torniamo a Le Etiopiche: la sceneggiatura è veramente ricchissima e denota una maturità compositiva fuori dal comune, oltre ad uno spiccato plurilinguismo che è ovviamente connaturato all’esame di questo pezzo di storia. Come è nata, quali le ispirazioni? In quanto tempo avete creato lo spettacolo?

In un anno di fatto di lavoro scenico e coreografico ma prima ci sono stati cinque anni di studi, senza i quali non avrei avuto l’idea.

Questo spettacolo fa parte di un progetto più ampio: la ricerca e l’analisi delle culle tradizionali della civiltà europea (Israele e Palestina, Grecia). E’ nato quando ero in Israele, il primo esito è stata una tesi di laurea magistrale. Per concentrarmi sulla Grecia fin da subito avevo immaginato un esito diverso (uno spettacolo), purtroppo per fare l’antropologo devi essere sul campo e non mi è stato possibile andare in Grecia: lì è difficile trovare lavoro per un danzatore come me e non volevo essere costretto ad abbandonare il mio lavoro. 

Ero riuscito a sistemarmi ad Istanbul e a trovare un lavoro lì ma il Covid me lo ha fatto perdere. Sono dovuto rientrare in Italia dove è nato, con un riadattamento, il progetto di cui hai visto il primo capitolo. 

La mia indagine sulle culle della civiltà ha una sua tesi: vuole dimostrare la presenza ed il forte influsso di elementi culturali (e di persone in carne ed ossa) afro-asiatici in queste ‘culle’ della civiltà europea e quindi di rimando nella stessa civiltà europea.

Per quanto riguarda la Grecia, mi è venuto in mente di usare come filone drammaturgico le avventure di Alessandro Magno che per me è simbolo forte di una contraddizione europea: da un lato una genuina curiosità per l’altro e per l’altrove, dall’altro l’epitome del colonialismo europeo del XIX secolo e del nuovo colonialismo occidentale a livello economico e non solo. 

Da qui abbiamo iniziato a pensare che forma dare allo spettacolo, rendendoci conto di avere a che fare con una materia da colossal visto le epiche gesta e tutto il background alessandrino. I luoghi dove è stato erano spunti per il rapporto Europa/Africa anche nella contemporaneità. Riguardo la scrittura del testo, devo dire che la parola non è proprio il primo input, ma le immagini e le idee visive. La parola è quasi un collante narrativo che presenta queste visioni che sono soprattutto provenienti dalle immagini e dai video.



Il corpo danzante: come avete inventato i gesti tersicorei, la coreografia, per aderire al portato delle parole e come avete deciso il ‘crescendo’ della coreografia?

E’ lo spettacolo stesso che vorrebbe spiegare quello che chiedi: il prologo situato all’inizio che parla di Wittgestein è quasi una dichiarazione di metodologia. 

A poco meno di 30 anni, il filosofo scrive il Tractatus e pensa di aver trovato un linguaggio logico che funga da perfetto specchio del reale ma si rende conto – nello stesso Tractatus – che resta qualcosa che non può essere spiegato. Quello che sfugge alla logica è il mistico. 

Nello spettacolo cerchiamo di trasmettere il mistico con le immagini e con il corpo. Il tentativo di far dire al corpo quello che non riesce a dire la parola è ancora in fieri. Sono contento del punto che abbiamo raggiunto ma possiamo ancora andare avanti. L’obiettivo è tenere la danza all’interno della narrazione. Nella prima falange (una coreografia in cui gli attori usano scudi e lance ndr), nel secondo trio con la compresenza di video e di danza (nei corpi e nelle ombre) ci siamo riusciti, ma possiamo ancora lavorare e migliorare. Miriamo a una danza narrativa e non didascalica: un corpo che non danzi ma che racconti, un corpo narrante. Sono content del solo/duetto tra il sufi e la guardia di frontiera greca, mi rendo conto quando rivedo il film dello spettacolo che lì siamo nella direzione più giusta. Lì il corpo ha l’intenzione teatrale e di vita (non di danza). 



Il solo-duo che menzioni ha colpito me e altri spettatori, funziona molto, Del pari il momento con il poliziotto di frontiera greco! Come darete corso al progetto di trilogia con l’attualità devastante della guerra? Modificherà la creazione? Includerà o meno questa guerra? 

Posso dire di sì – modificherà la creazione – ma come tutti siamo in attesa di capire dove andrà questa crisi. 

Includere o meno questa guerra? Sto ancora cercando di capire le intenzioni che ci sono dietro e gli effetti che in primis avrà sull’Europa (a riguardo dello spettacolo) e poi a livello mondiale. Adesso non la sto ancora capendo.

Da un punto di vista strutturale, la trilogia segue un percorso storico. 

La prima parte aderisce al portato alessandrino all’inizio dello sbarco in Asia e delle avventure africane fino ad Alicarnasso. 

La seconda vorrebbe concentrarsi sul periodo che va dalla battaglia di Isso (attuale zona di Alessandretta e del golfo che lega le odierne Turchia e Siria) per arrivare fino a Gaugamela, l’attuale Kurdistan, passando per l’Egitto. Questo richiederà un’analisi della relazione che l’odierno Vicino Oriente ha avuto ed ha con l’Occidente. Un capitolo molto denso che terrà dentro la spartizione del Levante da parte delle potenze Europee fino alla questione Palestinese e Curda. 



E le primavere arabe, la repressione egiziana?

Anche, assolutamente! Muhammad Abd alMunem, il poeta che è intervenuto alla fine leggendo una sua poesia (link alla poesia), sarà un personaggio centrale. E’ un poeta ed è stato (purtroppo non ha più possibilità di esserlo) un editore di Aleppo che è in contatto con i maggiori scrittori siriani contemporanei, la voglia è di lavorare a fondo ancora di più con lui e mettersi in contatto con queste persone. Vorrei creare un lavoro molto condiviso, che viva di questo dialogo continuo con persone in carne ed ossa nei luoghi in cui è passato Alessandro. Per dare voce all’alterità. 

Il finale del primo capitolo de Le Etiopiche è un po’ un prologo per i prossimi capitoli: la mia scrittura è una porta per far sentire le voci degli altri.

Il terzo capitolo riguarderà l’Iran, l’Afghanistan, il Pakistan e l’India. Ma è ancora lontano, occorre molta ricerca come accaduto per il primo capitolo della trilogia. 

Spero tanto di riuscire ad averla pronta per la fine del 2023 ma non ne sono sicuro, vedremo.



Ljubljana è la città d’adozione dove ora vivi e lavori: quali sono i tuoi luoghi prediletti come lettore per ricavarti uno spazio di intimità con la parola scritta da altri? 

Ho la fortuna di lavorare nel centro culturale Španski Borci (che significa ‘i guerrieri spagnoli’) fondato negli anni 80 e dedicato ai volontari jugoslavi della guerra di Spagna. Oltre al teatro dove risiede la compagnia, c’è anche una biblioteca. In compagnia c’è un atmosfera davvero familiare tra tutti quelli che vi lavorano. La biblioteca è molto bella, di solito leggo e studio moltissimo lì oppure nella mia camera che è in un seminterrato nel quartiere di Kodeljevo, molto vicino al teatro. 

Nel bene e nel male, ho passato un anno intero dedicato solo al progetto. E’ stato estremamente interessante arrivare a un risultato a cui non ero mai arrivato prima. Dall’altra mi fa un po’ impressione: sono un po’ alienato perché il lavoro vive anche delle mie memorie israeliane e palestinesi. 

Pur avendo trascorso un anno fisicamente in questa città non l’ho mai vissuta veramente non avendo quasi mai abbandonato il teatro e non ho esplorato ancora molto la scena culturale.

Ti posso solo dire che mi è molto interessato fare Le Etiopiche prima qui a Ljubljana (due repliche) e poi in Italia (quattro repliche) perché abbiamo avuto reazioni diametralmente opposte sia dal pubblico che dalla critica.



Sei pieno di talenti; plurilinguismo e un sapere che si estende dalla recitazione alla danza. Chi sono stati i tuoi maestri (veri o figurati) e quale talento – che non pensi di possedere – vorresti?

Nessun maestro con la M maiuscola ma ne ho avuti molteplici. I miei genitori sin da subito, già quando avevo 3 o 4 anni, ed i nostri viaggi in tutta Europa: mi hanno trasmesso una passione per l’altrove che con la maturità è diventata anche passione per l’altro, le persone che abitano i diversi paesaggi. 

Poi Innocenzo Grimaldi, il mio professore al Ginnasio. E sicuramente diverse persone che sarebbe troppo lungo elencare, che ho soprattutto trovato in Israele e Palestina, come Ruben Moskovitz un ebreo emigrato in Israele dalla Romania che ha sempre combattuto per la convivenza tra i due popoli ed è tra i fondatori di Neve Shalom/Wahat al-Salām, l’unico paese in Israele ad ospitare un pari numero di famiglie ebraiche ed arabe, poi Hassan Kunduz (Giaffa) il mio maestro di arabo. 

Il talento che non possiedo? Vorrei essere un migliore danzatore.



Beh, ho visto Le Etiopiche con una regista teatrale ed una danzatrice che si occupa di progetti sociali: entrambe hanno detto che il tuo corpo esprimeva tantissimo perché eri un danzattore e non un danzatore e soprattutto la prima affermava che per molti registi è una qualità fondamentale! 

Che bello saperlo! Il fatto è che ho iniziato danza a 23 anni e questo mi limita. Avrei desiderato aver giocato meno a calcio e fatto più ore di balletto!



Un libro e una canzone con te in questo momento

Vengono tutti da Napoli. Ho preso ‘Storia di Napoli’ di Antonio Ghirelli ed è qui con me ora. E stavo studiando Maruzzella di Carosone. Napoli è sempre un mondo che ti dispiace lasciare dopo solo pochi giorni…Vorrei portare questo spettacolo sempre più a Sud e stare di più al Sud.



Cosa hai imparato sin qui dalla vita?

Una domanda così mi fa pensare a una risposta sempre troppo esagerata…Non so se l’ho imparato, preferisco parlare di intuizione: intuisco che nell’altro e nell’altrove c’è un viaggio interiore meraviglioso.

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